mercoledì 30 giugno 2010

La sinistra enigmistica.


Oggi come oggi, in Italia, che cosa c'è di più enigmistico (ed enigmatico) della sinistra?

Se certi comportamenti dei nostri rappresentanti di sinistra ci risultano incomprensibili, forse è perché in realtà sono una sciarada da decifrare, un rebus da risolvere, dei puntini isolati da unire per capire qual è il vero piano che sta dietro al nulla che, giorno dopo giorno, sembra abbattersi sulle nostre sinistre vite.
O semplicemente un cruciverba che più passa il tempo e maggiore è il numero dei quadratini neri (qualcuno anche bianco, ma sicuramente nessuno rosso).

Comunque sia, nell'attesa che il mistero venga svelato – quindi probabile che l'attesa si prolunghi all'infinito –, quelli de Il Manifesto, con l'ausilio di Capitan Andrea Voglino e di un manipolo di prodi (non Romano) tra cui spiccano la boccia lucida di Diego Cajelli e le lenti antiriflesso di Luca Enoch, ti hanno messo in piedi La Sinistra Enigmistica, un agile rivistina che, male che vada, vi promette un po' di refrigerio nella calura estiva.

Roba da leggere, da ridere e scarabocchiarci su facendovi invidiare da tutti i neo-catecumeni del Bagno Bertolaso (che hai voglia, cari miei, ad aspettare Il Giornale per avere una robina del genere…).

Il primo appuntamento è per domani, in edicola con Il Manifesto.
5 euro in mano e vi danno pure indietro 30 centesimi per contribuire alla campagna "Trova un senso a Rutelli".

ERRATA CORRIGE: Rutelli ha espresso la volontà di devolvere i 30 centesimi ricevuti alla causa de Il Manifesto. Per cui, date 5 euro all'edicolante e indietro avete la Sinistra Enigmistica più una copia del celebre quotidiano comunista. E bravo Francè!

In radio, a parlare del Picnic.

Giovedì scorso ero in radio (RumoreWeb) insieme a Corrado Rabitti a parlare del Picnic! Festival di questa domenica.
On-line si possono ora ascoltare le chiacchiere che abbiamo fatto con la conduttrice del programma "Il divano non vincerà" di cui eravamo ospiti.
Se vi va (di ascoltare me e Corrado e di scoprire che cosa sono gli "omaccini"), basta cliccare QUI.

martedì 29 giugno 2010

Cosa dire di Pietro Taricone?

"Ho trentotto anni. Sono un poco grasso e ho i capelli un po’ bianchi perché mia madre dice che pure mio padre ce li aveva. Di mestiere faccio il culo alla gente."

A me Pietro Taricone stava istintivamente simpatico.
Non me ne è mai fregato un tubo del Grande Fratello ma lui, Taricone, se lo incrociavo in qualche intervista tv, mi fermavo ad ascoltarlo.
Mi piaceva come riusciva a descrivere il suo modo di guardare le cose, una specie di ragionamento in progress più fatto di domande e dubbi che di risposte.
Per cui me ne frega poco dei sospetti di buonismo: quando oggi, alla radio, ho sentito che Pietro Taricone era morto, la prima cosa che ho pensato è stata "mi dispiace".

Oltre a quello per la morte di una persona che quando vedevo in tv mi stava simpatica, resta il dispiacere che, alla fine, il progetto di adattare in un film diretto da Francesco Patierno il romanzo Pericle il Nero di Giuseppe Ferrandino non sia andato in porto (progetto che pare sia stato da poco preso in mano da Abel Ferrara).
Nella versione di Patierno il personaggio di Pericle lo avrebbe dovuto interpretare lui, Taricone, che – dicono – per un anno si fosse fisicamente sfasciato proprio per assomigliare maggiormente al personaggio immaginato da Ferrandino, quell'uomo-cane specializzato nel sodomizzare i nemici del boss camorrista – ma anche quelli che più semplicemente sgarrano – che, per qualunque attore, sarebbe una sfida non così facile da accettare.

Tanto per la cronaca, Abel Ferrara ha comunque già dichiarato che il suo Pericle sarà Riccardo Scamarcio.

Semplicemente, mi dispiace.

martedì 22 giugno 2010

Fàmolo nostrano.

(Vi risparmio una lettura lunga e inutile: a dispetto del titolo del post e dell'immagine a corredo, quello che segue non è post dedicato a Carlo Verdone o a qualche mia arguta osservazione inerente bizzarre pratiche sessuali del giorno d'oggi. È solo un noioso post sul mercato del fumetto in Italia che, se non siete interessati all'argomento, potete anche evitare di leggere. Le bizzarre pratiche sessuali comunque le trovate QUI)

Lo so che non dovrei farlo, ma sto seguendo il dibattito on-line (soprattutto QUI) su quanto è giusto che vengano pagati gli autori di fumetto (ed è giusto) e sul fatto che oggi, in Italia, chi di mestiere fa fumetti (chi li scrive e chi li disegna) difficilmente con quello che guadagna ci paga le bollette.

Non è un dibattito nuovo (e spesso mancante del momento in cui si spiega come l'editore debba fare a pagare le sue di bollette) e, non essendo tale, capita spesso che mentalmente ci si incagli sul fatto che se un autore di fumetti lavora per Bonelli o per Disney allora, con quello che guadagna, le bollette le paga e che, quindi, sono tutti gli altri editori, anche quelli che tirano 1000/1500 copie (di cui ne vendono 800/1000) che, pur nel loro piccolo, si devono allineare al buon costume di Bonelli e Disney.

I ragionamenti sono quelli che più o meno tutti voi, cari i miei 5 lettori e 1/2, conoscete già a menadito se bazzicate un po' il mondo dell'editoria a fumetti, quindi non ripetiamo.

Però vorrei aggiungere un piccolo tassello al ragionamento.

Se i piccoli si devono allineare al buon costume dei grandi, allora è giusto che anche i grandi si allineino al buon costume dei piccoli.
E il buon costume dei piccoli, anche detto "il popolo delle 1000/1500 di tiratura", è stato quello di aver pubblicato, in questi ultimi 10 anni, opere inedite e nuovi talenti del fumetto nostrano.
Chi più e chi meno, chi con maggiore e chi con minore qualità

Ovvio, conti alla mano, una tiratura di 1000/1500 copie non ha margini per giustificare un pagamento professionale di tutte le parti in campo (autore, editore e grafico. Solo il distributore si prende comunque il 50% sul prezzo di copertina, sia che il libro venda niente, sia che venda tanto) e, proprio su questo "patto di povertà" si è andato a costruire l'assetto attuale del fumetto italiano.

Ma c'è poco da fare: quando non ci sono soldi, o non si fa nessun patto, o si fanno "patti di povertà".

E i grandi?
I grandi (ne cito 3: Bonelli, Panini e De Agostini. Sarebbero 4, ma confesso che per me Disney resta un luogo mentale oscuro) negli ultimi 10 anni (forse qualcosa di meno) sono stati tenuti a galla sul mercato editoriale dalle operazioni fatte con Repubblica, Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera (più qualche settimanale), operazioni in cui o svolgevano il ruolo di "impacchettatore di prodotto" (anche detto "packager") o mettevano a disposizione di packager/service il loro prodotto editoriale (gli alberi abbattuti per i 177 volumi ricolorati di Tex urlano vendetta).

A fronte di un mero saccheggio del patrimonio del fumetto mondiale, alle 3 case editrici di cui sopra sono stati versati da Repubblica & co. dei gran soldi che, alla fine dei conti (decennali) sono stati i veri soldi che sono girati nel mondo del fumetto italiano.

Ma perché dico saccheggio?
Perché di tutti quei soldi che sono entrate nelle casse delle case editrici da tutte queste operazioni che avrebbero potuto allargare la conoscenza del fumetto, niente è stato reinvestito per fare un po' di quello che le piccole case editrici, pur con i loro "patti di povertà" con gli autori, hanno fatto e stanno ancora facendo.

In questi 10 anni qual è stato il lavoro di scouting fatto da Bonelli, Panini e De Agostini?
Nessuno.

Tralasciando De Agostini (l'ultima arrivata ma che comunque non ha fatto nulla del poco che avrebbe potuto fare), in questi 10 anni Bonelli è riuscito solo a creare e ad affondare in una stessa mossa il modulo del romanzo a fumetti, a mantenere le serie che vendono (chiudendo come è logico che sia quelle che erano in perdita), a tentare con poca o nulla convinzione la carta del fumetto a colori (Leo Pulp e Dylan Dog Color Fest) e a varare un paio di miniserie che, per ora, si sono discostate poco dalla qualità media della casa editrice.
Si poteva fare di più per il fumetto italiano e i suoi autori con i soldi incassati dalle operazioni con Repubblica & co.? Si poteva.

E Panini?
A parte Ratman (che, se esistesse un dio, lo rimetterebbe in mano al defenestrato Andrea Rivi che a Panini lo portò in dono di nozze e che, finora, è stato meramente gestito da Lupoi & co.), per contare le operazioni fatte dall'editore modenese in questi anni bastano davvero le dita di una mano (Rigel, Murphy 911, Le cronache del mondo emerso, la graphic novel di Ligabue e i fumetti di Vasco Rossi) e, in tutti i casi, c'è una certa dose di imbarazzo a valutare i risultati raggiunti.
Anche qui, si poteva fare di più per il fumetto italiano e i suoi autori con i soldi incassati dalle operazioni con Repubblica & co.? Si poteva.

Questi editori, invece, hanno incassato il malloppo e non ne hanno reinvensito nel fumetto nemmeno un euro.
E gli autori che oggi si lamentano di quanto sono vergognosi i "patti di povertà", dovrebbe chiedere conto a quegli editori che i soldi li hanno avuti, li hanno e non gli passa nemmeno per l'anticamera del cervello di investirli sul loro lavoro.

E credo che sia giusto ricordarsi di questa cosa la prossima volta che una giuria di un premio di fumetti deciderà che è cosa buona e giusta premiare Tex.

lunedì 21 giugno 2010

Tati reloaded.

Jacques Tati rivive al cinema ne L'illusionista, il lungometraggio animato che Sylvain Chomet (già autore di Appuntamento a Belville) ha tratto da uno script mai prodotto dell'indimenticabile attore (e regista) della commedia francese.

Realizzato in animazione 2D tradizionale, L'Illusionista è ambientato nel 1959.
Quando la fama di un illusionista viene oscurata dalle rock star emergenti della zona, lui è costretto ad accettare di esibirsi in situazioni precarie come piccoli teatri, feste in giardino e nightclub.
Ma l'insoddisfatto illusionista incontra una fan che cambierà la sua vita per sempre...

Che dire? L'operazione è interessante, l'idea, dal punto di vista produttivo, mi sembra buona (io li adoro i francesi che, a differenza di noi italiani, non sprecano mai niente) ma, guardando il trailer, non posso dire che il risultato mi convinca al 100%: salta infatti fin troppo all'occhio è che il confronto tra la fisicità del Tati in carne e ossa e quello animato non è davvero possibile.

Vedremo se e quando la pellicola uscirà anche nei nostri cinema…

venerdì 18 giugno 2010

Bendaggi.

Che sì vabbè l'estetica del cerotto, però i bendaggi costano un botto.

5 cerotti grandi e 12 compresse di garza: 12 euro e 50!!!!

Se rinasco faccio cerotti, non libri.

(percorso per una storia cinematografica della medicazione e vari pensieri associativi: i cerotti sul viso di Marv di Sin City, le compresse di garza di Band of Brothers e/o Salvate il soldato Ryan, i pacchetti pronto-soccorso di Platoon e/o Full Metal Jacket, i bendaggi sui polsi di Richie ne I Tenenbaum, la bendatura extreme del viso ustionato di Ralph Fiennes ne Il paziente inglese, l'ingessatura su lingerie di Sigourney Weaver in Una donna in carriera)

(da cui – i pensieri associativi, appunto – il feticismo delle cicatrici di Crash, l'auto-sutura di Rambo, le amputazioni di Boxing Helena e/o Lo Zoo di Venere e/o E Johnny prese il fucile, la frattura esposta della gamba di John Savage ne Il Cacciatore, i lividi di Laura Palmer in Twin Peaks e/o di Isabella Rossellini e Kyle McLachlan in Velluto Blu, le tumefazioni di Rocky Balboa e Apollo Creed in Rocky e quelle di Andrew Norton e Brad Pitt in Fight Club).

giovedì 17 giugno 2010

Autori Picnic! 2010: aggiornamento

Per impegni sopraggiunti, è costretto ad uscire tra gli applausi del pubblico e della panchina Dell'Edera.
Entrano Vitti, Accardi e Gianfelice.

Ed ecco quindi la formazione degli autori del Picnic! 2010 aggiornata:

• Ausonia

e per gli illustratori:


L'arbitro fa segno che la partita può riprendere.

Messico '70.



17 giugno 1970. Allo stadio Azteca di Città del Messico, l'Italia batte la Germania 4 a 3 in quella che per molti è "la partita del secolo" e si candida alla finale della Coppa del Mondo.
Scaduti i 90 minuti, i signori Ciccarelli vanno a segno e 9 mesi dopo, 16 marzo 1971, nasco io.
Quindi, figlio della gioia.

Un'altra vulgata familiare, però, sostiene che il 21 giugno, dopo che l'Italia è stata battuta in finale dal Brasile di Pelè con un indecoroso 4 a 1, gli stessi signori Ciccarelli abbiano deciso di consolarsi con una proverbiale "botta di vita" e così, sempre 9 mesi dopo, sempre il 16 marzo del 1971, sono nato io.
Quindi, figlio della delusione.

Per dire, sapere da dove si viene nella vita è tutto.

martedì 15 giugno 2010

Post post-operatorio.

Ieri mi sono passato le mie belle 12 ore in ospedale per un interventino in day hospital, uno di quelli che ti dicono tutti che è una roba da niente (e infatti lo fai in day hospital) ma che comunque prevede di passare per le mani di un anestesista, di un chirurgo e che ti attacchino per un po' alla macchina che fa blip (oltre ad una depilazione che, ho scoperto ieri, non è mai abbastanza ampia. ARGH!).

Certo, la sensazione di gente sconosciuta che ti taglia con un bisturi e ti sfruguglia la panza commentandone ad alta voce il contenuto, resta strana ma, alla fine, l'intervento è andato bene (ed era davvero un interventino) e, a parte il momento di ceretta di cui sopra e un fastidiosissimo raffreddore beccato nel fine settimana, l'unica vera rottura di balle è stata l'eterna caccia alle vene per la flebo (8 tentativi a questo giro).

Ecco, la cosa che mi è dispiaciuta è di essermi dimenticato di portarmi a casa il camice che mi avevano dato per l'operazione, uno di quelli culo al vento che, se riesci a trovare anche un'asta per la flebo con le ruote, hai già pronto il costume da zombie per la prossima zombie walk (a proposito, come sarà andata quella della settimana scorsa a Verona?)

Oggi, con il mio bel cerottone appiccicato sul petto e una mobilità del torso che ricorda quella di Robocop, mi prendo un giorno di convalescenza in cui, complice il computer di Linda, scrivo un post (questo), cazzeggio su internet e rigioco Piante vs Zombie mentre, sullo sfondo, seguo con poco interesse lo svolgersi stiloso della trama de "Il giardino delle vergine suicide".

Che poi, ieri, è stata anche la giornata in cui è nata Elena, la primogenita di Carmine e Raffaella, 3 chili e 50 per 51 centimetri di pura fagottosità teramana. Ieri sera, al telefono, mentre mi raccontava i 5 secondi in cui aveva avuto Elena in braccio e rivendicava i diritti maltrattati di padri e mariti, ho avuto la netta sensazione che Carmine fosse esattamente al centro di dove voleva che fosse la sua vita.
Dalla mia convalescenza, alzo il mio calice (di cedrata, che quella mi sto bevendo mentre scrivo) per Carmine e la sua famiglia, felicissimo per la loro felicità.

martedì 8 giugno 2010

Gli spiccioli per il filobus e un foglietto.

Ripensavo allo scorso 2 giugno e al nostro Ministro dell'Interno (Roberto Maroni: lo so, è incredibile, ma è lui) che è a Varese e, invece che l'Inno di Mameli, fa mettere su "La gatta" di Gino Paoli.

Quanto era profetico il piano di studi di quell'Istituto Sperimentale "Marilyn Monroe" immaginato nel 1984 da Nanni Moretti

lunedì 7 giugno 2010

Il colore magari lo scegli tu.

Cari i miei 5 lettori e 1/2, con questo post volevo condividere con voi un paio di "note a margine" di una delle pubblicità più rappresentative di questo nostro Belpaese che affonda facendo finta di nuotare a farfalla, ovvero sia questa:

Ora, se è vero quello che c'è scritto qui:



allora quella stracazzo di fabbrica mi appartiene come cittadino italiano perché prima i miei genitori e poi io l'abbiamo pagata e ripagata con le nostre tasse e, avendola pagata, ora è mia.

È, dal momento che sono tra i proprietari, propongo di raderla al suolo, bruciarla, pisciare sulle sue ceneri e, magari, dimenticare che sia mai esistita.

Ma perché tutto questo livore, vi chiederete voi?

Dunque, da dove iniziamo?
Ah sì, iniziamo da quello spot là sopra (e sorvolo sul fatto che fa ridere che qualcuno ci dica che  siamo di fronte a qualcosa che nasce: è sempre Fiat, acrostico del quale le prime due lettere stavano appunto per "Fabbrica Italiana").

Che cosa ci racconta?
Ci racconta che chi tiene le redini di quella baracca (che non dimentichiamo che è nostra: l'abbiamo pagata) non ha nessun problema a vedere noi  italiani come bimbini inconsapevoli che, in fondo, di quello che decide lui e la sua cricca non siamo nemmeno poi così interessati.
Anzi, non ce ne deve fregare niente.
E ce lo dice pure

Sai com'è, ci date una tetta, qualcuno che ci smerdi e un letto dove dormire e noi italiani siamo felici così.
Cioè, fino a un certo punto.
Magari qualche domanda la facciamo, alziamo la testa e, sì, "non vogliamo dormire".
Nessun problema: una storia noiosa e melensa basata sul niente, una voce calda e rassicurante e vedrai che ci dimentichiamo tutti di quanti soldi ci ha ciulato quella che è una fabbrica di famiglia finché guadagna e un fabbrica di tutti gli italiani quando c'è da sborsare.
Funziona meglio del latte caldo col miele.

Italiano, non dormi ancora?
Beh, allora ti dico che le nostre cazzo di automobili che costano assolutamente più del poco che valgono, da qui a cinque anni le andremo a vendere anche negli Stati Uniti (che però, come ai tempi degli emigranti con la valigia di cartone, per farti emozionare la chiamiamo Ameeeericaaa).
E questo mi dovrebbe convincere? No, non  mi ha convinto.

Ah no, aspetta, c'è anche la parte in cui si batte cassa: cittadino, tutta questa bella roba che ti sto prospettando e tu non vuoi fare niente? Cazzo, compra almeno una Punto! Una 500!
Sì, lo so anch'io che le auto giapponesi sono migliori delle nostre da qualunque aspetto le guardi e ora ci si sono messi pure gli indiani a farci concorrenza sul prezzo.
Ma tu, cazzo, sei italiano! Compra italiano e non rompere i coglioni!
Che poi, alla fine, mica compri quella ciofeca di Fiat: compri un auto di quel nobile gruppo industriale che ha dentro, che te lo dico a fare?, Ferrari e Maserati.
Vedi un po' te…

Vabbè, la solita merda per il pubblico che guarda ancora la tv, direte voi…

Però qui il ragionamento merita un grado di approfondimento.
Ora io non voglio stare qui a disquisire sul fatto che le auto Fiat non valgano un tubo.
Voglio invece concentrarmi su un'idea di industria nazionale che, oggi, mi manda a diffusione nazionale uno spot per dirmi che sta puntando ancora tutto sull'automobile. Cioè, su quello che d'accordo che è stato il volano industriale del XX secolo ma oggi, davvero, con l'esaurirsi dei combustibili fossili e con l'innalzamento dei costi delle materie prime, non ha più nessun senso di esistere. O almeno non così.
E se il mio Paese accondiscende a una logica suicida come quella di impostare il suo futuro su un'industria che ha come perno l'automobile, questa è una roba da scendere in strada e fare le barricate.

Una rivoluzione industriale c'è stata qualche anno fa ed è quella che è passata per la rivoluzione tecnologica e le sue numerose declinazioni (la comunicazione, l'informazione, l'intrattenimento, il medicale, etc.)
Anni fa noi abbiamo avuto la possibilità di lasciarci alle spalle ruderi del secolo scorso come l'industria dell'automobile (o almeno di ridimensionarne l'impatto sulla nostra economia) e di abbracciare un'industria che poteva essere più alla portata di un Paese come il nostro che non ha le materie prima, che non ha le infrastrutture e che ha invece un forte know how creativo e che, se ci fossimo mossi per tempo e non avessimo fatto morire quel poco che avevamo già creato, aveva pure quello tecnologico (tipo con Olivetti).

Noi quel treno l'abbiamo consapevolmente (e colpevolmente) mancato di brutto e la cosa terribile è che nessuno ha pagato per questo.

Pensate solo a qualcosa di lmitato all'interno dell' "industria tecnologica" come il mondo dei videogames.

Creativita, tecnologia e marketing: quella è un industria che era assolutamente alla nostra portata e che invece nel nostro paese – che pure di quel tipo di tecnologia è consumatore – non esiste.
Qualcuno dei nostri politici si è mai mosso per incentivare corsi di studio che preparassero persone pronte ad operare in questa direzione?
Sono mai stati stanziati fondi (o creato sgravi fiscali) per far nascere software house o aziende mirate a questo tipo di business?

Niente. Nulla.

E perché? Perché la nostra industria riesce a immaginarsi solo in funzione dell'automobile.

E allora è proprio in funzione di questo pensiero unico ed ossessivo noi, come proprietari di quella industria, la dovremmo togliere di torno, eliminare, fosse solo per obbligarci a pensare un futuro industriale diverso.

E poi, cazzo, tornando alla fabbrica Italia: è roba mia, pago pure e tutto quello che posso fare è magari scegliere il colore?
Ma andatevene a vaffanculo!

Picnic! Festival 2010.

Anche quest'anno l'elenco degli autori presenti e pronti ad alternarsi durante la giornata per disegnare per il pubblico è un valido motivo per passare una giornata alla terza edizione Picnic! Festival.
E questo nonostante il fatto che il 4 luglio a Reggio Emilia manchi una cosa fondamentale: il mare.

Infatti, a meno di rinunce dell'ultimo minuto, tra i fumettisti avremo:


e per gli illustratori:

Virginie “Ninie” Soumagnac
Valerio Vidali
Eva Montanari
Claudio Casini
Maddalena Gerli
Cristiano Andreani
Gianluca Folì
Philip Giordano
Evelyn Daviddi

Come dite?
Non avete idea di che cosa sia il Picnic! Festival?
Beh, per fortuna che l'anno scorso Zironi ha girato un video che lo racconta un po' per immagini…

venerdì 4 giugno 2010

I miei capelli.

Nonostante il titolo, questo post non sta qui in riferimento al celebre brano di Niccolò Fabi



ma solo per raccontare che, ultimamente, la situazione dei miei capelli era andata un po' fuori controllo. Anche quella della barba ma, come da aggiornamenti twitter, a quella avevo già posto più o meno rimedio ieri.

Ma che significa fuori controllo?
Significa che l'ultima visita al flemmatico barbiere Mario e alla sua socia sovietica Alex (io: "Alex, ma come mai non sorridi mai?" e lei, guardandomi: "Non vedo niente di piacevole") era stata più o meno a ottobre e, quindi, se a gennaio (ultima documentazione fotografica sul web) ero più o meno così:



da allora, nel giro di qualche mese avevo finito per trasformarmi in una strana e bizzarra creatura tricotica.
Tanto che Zironi, una delle ultime volte che mi incontra, sente il bisogno di raccontarmi a grandi linee la storia di Frate Mitra, che a Napoli Carmine mi viene incontro gridandomi: "Noooo!!!! Lo Zeus di Scontro di Titani!" (quello del '81) e che mia madre, al telefono, mi dice che ha già rinnegato più volte il grado di parentela con il sottoscritto di fronte alle vicine che le chiedevano notizie di quel figlio barbuto che di tanto in tanto le capitava a casa.

Ora, l'obiettivo nemmeno tanto celato – dopo quella di dare simbolicamente una forma fisica al naufragio di cui nei mesi scorsi mi trovavo nel bel mezzo – era quello di fare crescere i capelli in modo tale da potermeli legare, anche se, è inutile dirlo, ogni volta che pensavo a questa cosa, in mente una voce mi sussurrava "Miiimmoooo… Miiimmoooo…".

Mimmo.
Negli anni della mia tarda adolescenza fanese, Mimmo era il mio fornitore ufficiale di software nonchè personaggio di riferimento di tutto il panorama videoludico locale. E su questa fatto non aggiungerò altro (che non vorrei mai che qualche procedimento penale a suo carico fosse ancora in corso).

Però, ai fini del nostro racconto, cari i miei 5 lettori e 1/2, a voi è sufficiente sapere che Mimmo è un signore che amava suonare la chitarra elettrica (una Fender Stratocaster da vecchio rocker nostalgico), chitarra che collegava al suo amplificatore e che, per non rompere le balle alla famiglia, si ascoltava lui da solo in cuffia.
Probabilmente sognando di fuggire via da Fano.
Al tramonto.
A cavallo di un chopper.

Così un giorno arrivo a casa di Mimmo e la moglie mi dice "È di là che suona. Te lo vado a chiamare".
La moglie, una signora simpatica che di Amiga e Dos non ne sapeva un tubo e che quindi si accontentava di capire solo il redditto generato dalla numerose ore serali spese dal marito a copiare vagonate di floppy disk che poi code di adolescenti passavano a ritirare in blocchi di dieci legati da un elastico (i floppy: che nostalgia…), si affaccia alla camera da letto dove, seduto sul letto, Mimmo sta suonando la chitarra in cuffia e, con un accento fanese che qui non tenterò nemmeno di riprodurre, si rivolge a lui così: "Mimmo, c'è Andrea. Mimmo? MIMMO! MIMMOOOOOO!!!!! MA CHE CAZZO SUONI LA CHITARRA CHE NON C'HAI PIÙ I CAPELLI?!".

Il problema infatti è che, in un simbolico ritorno al tempo che fu (inutile nascondersi dietro un dito, no?), io i capelli posso anche farmeli crescere (è automatico: aspetti del tempo e loro crescono) ma, per quanto loro possano crescere, al centro della mia testa non ce ne sono più.
Non ce ne sono più dietro e non ce ne sono più davanti e, mese dopo mese, la striscia ancora fertile che separa queste due zone si fa sempre più sottile, come se le due aree disboscate si volessero riunire in un simbolico abbraccio come nel '90 Berlino ovest con Berlino est.

Insomma, niente più capelli sulla cima della cucuzza. È il marchio dei Manotta, il 50% di corredo genetico portata da mia mamma. Una sorte a cui non si sfugge.
"Sono andati via. E non torneranno mai."



Peggio ancora. Quando a me crescono i capelli, c'è sempre una fase in cui la somiglianza con il Gufo del Devil di Gene Colan si fa imbarazzante:



O, vista anche la mia forma non propriamente snella e le tempie incanutite, quella con la Cariatide del Gruppo TNT:



Cioè, mi spuntano sulle tempie questi strani ciuffi che puntano verso l'alto e che, finché i capelli non sono cresciuti, non c'è un cazzo da fare: loro puntano verso l'alto.
E voi non potete immaginare quanto io li odi.

Così, raggiunta una certa soglia di lunghezza, io comincio a contare i giorni che mi separano dal momento in cui le maledette ciocchi sulle tempie saranno abbastanza lunghe per poterle legare dietro la testa e allora, prova, riprova, riprova ancora ma le maledette non sono mai abbastanza lunghe e se ne stanno giù in un ordine esteticamente per me accettabile solo dopo la doccia.
Ma asciugo i capelli e tac! rieccole lì.

Insomma, passano i giorni e poi ieri, in tv, girando, mi imbatto in quell'italico coacervo di vuota contemporaneità che è Roberto D'Agostino:


Ok, decisione presa.
Oggi pomeriggio, sono già da Mario e Alex.
- Come li vuoi?
- Solo una spuntata, Alex. È che vorrei farmeli crescere.
- L'orecchio lo scopro. (sembra una domanda. Non lo è. E infatti sta già tagliando)
-Ok (la mia risposta che brilla da quanto è superflua)
- Dietro li sfoltisco.
- Ok. Falli anche più corti se credi. Accetto consigli, Alex.
- Meglio.

Sparare sulla crocerossa.

Da Repubblica online di oggi:
"Vale solo come gioco fotografico perchè l'immagine di questa crocerossina alla sfilata del 2 giugno ai Fori Imperiali ha suscitato molta curiosità. Secondo alcuni osservatori Silvio Berlusocni avrebbe apprezzato la bellezza della signora. Nulla di male, ci mancherebbe. Ma quello che colpisce è la rassomiglianza piuttosto evidente con la signora Veronica Lario, ex moglie del presidente del Consiglio".

Ma che cacchio di notizia è?
O trombano, o non trombano.
E, se trombano, lei lo frusta o no?
Ecchecavolo, ma ve le devo venire a insegnare io le basi del giornalismo d'inchiesta?

giovedì 3 giugno 2010

Mi sa che stasera non esco…

…che c'ho da finire di mettere in ordine le bollette dal 2003 a oggi. E al limite, se riesco, vado a vedere l'ultimo di Daniele Lucchetti che ne dicono tutti un gran bene.

Rotoballe.

La lingua italiana non ha regalato alle rotoballe un bel nome, troppo agritecnico per i miei gusti. Io infatti sarei per ribattezzarle futuristicamente con un neologismo ad hoc, magari anche onomatopeico. Tipo le Ludille. O le Boràghe. Al limite andrebbe bene anche un participio sostantivato come Rotolanti. O pure Solestanti, visto che il più del tempo se ne stanno sotto il sole.
Comunque, nonostante il nome, le rotoballe sono bellissime lo stesso.

Al tramonto, le rotoballe donano al paesaggio quel tocco di metafisica che non guasta mai. Anche all'alba, ma io all'alba di solito dormo. Cioè, a meno che non mi sia incaponito a finire un livello di System Shock come l'altra notte.

Il bello delle rotoballe è che sono forme geometriche rese perfette dalla luce radente, cilindri che punteggiano le linee dei campi e che, immobili, evocano l'idea di movimento. Una o più rotoballe in un campo e sei in un quadro di De Chirico. Tanto che ho cercato fino all'ultimo di convincere Bilotta a inserire ne La Dottrina una scena con delle rotoballe, ma non c'è stato niente da fare. Peccato però.

Che poi, detto tra noi, la verità è che le rotoballe appartengono a una razza aliena che, ogni anno cerca di invaderci. Puntualmente, tra maggio e giugno, sbarcano sulla terra e iniziano la loro invasione. Lentissima però, perché il tempo nel pianeta natale delle rotoballe scorre più lento che da noi e questo, ai nostri occhi, rende il loro movimento come quello del Norman Girotondo di Coscine di Pollo (grande libro: devi leggerlo, Linda!): costante ma impercettibile,

A pattuglie di 6 o 7, le rotoballe marciano verso le nostre città, fiancheggiate dai fanti papaveri e dai piumini paracadutisti. Ogni tanto ne vedi una isolata che è rimasta indietro o un'altra che ha scelto di disertare. Qualcuna si sfalda sotto un acquazzone primaverile – gli alieni di Wells crepavano per il raffreddore, le rotoballe per la pioggia – qualcun'altra viene catturata dai trattori e portata via in campi di concentramento spaventosi e distanti.
"Sergente, il soldato John… non ce l'ha fatta".

Immagino che, ogni anno, a settembre, nel pianeta natale delle rotoballe si tirino le somme per l'ennesima invasione andata a ramengo. Qualche testa di generale salta ("Incompetenti!" grida l'imperatore delle rotoballe ai militari spaventati) e si comincia subito ad escogitare nuove strategie per l'invasione dell'anno successivo. "Però, ragazzi, rendiamoci conto che finché non risolviamo il problema della lentezza, finirà sempre così. E quei terrestri sono dannatamente veloci…".

Il pianeta delle rotoballe.
Ecco un posto dove un giorno mi piacerebbe andare: fuori dalle balle sul pianeta delle rotoballe.