mercoledì 27 aprile 2011

La fine è il mio inizio.

Tentativo coraggioso quello di adattare cinematograficamente il libro testamento di Tiziano Terzani ma più o meno siamo dalle parti del Watchmen di Zack Snyder: non puoi dire che è brutto, non puoi dire che è bello. Puoi dire solo che il testo originario resta saldamente ancorato al medium in cui è nato (e che rivendica la sua infilmabilità con un "Ha-haaa" alla Nelson dei Simpson).

Ora, a dire il vero l'adattamento di Jo Baier per noi risente anche di un'altro aspetto: credo che sia girato in inglese (o, vista la produzione, in tedesco?) e poi doppiato in italiano. Cosa che rende il romano Elio Germano che si doppia in toscano qualcosa di abominevole (e inascoltabile).
Dai, diciamo che un po' ribilancia Bruno Ganz, sempre più bravo ad interpretare ruoli che richiedono un certo grado di mimetismo attoriale.

Però, in generale, è tutto il meccanismo che si inceppa: se per caso non sai niente di chi è stato Tiziano Terzani e di che cosa ha fatto nella sua vita, il film non ti aiuta minimamente a capirlo.
E così resti con il dubbio di chi cavolo sia questo omino vestito di bianco che gira per la natura toscana dispensando saggezza con la faccia barbuta di Giobbe Covatta ma senza mai dire "Basta poco, che 'cce vo?".

Ecco, potremmo dire che se non sai nulla di Tiziano Terzani e ne hai piene le balle di chi te lo propina sentendosi in dovere di dirti "Lo devi leggere", allora più o meno siamo dalle parti de Il signore degli anelli di Peter Jackson: 10 e passa ore di film saranno lunghe, ma vuoi mettere non dover mai più leggere i libri di Tolkien? (E lo so io che due coglioni che mi hanno fatto gli amici nell'adoloscenza – e pure dopo – con Il Signore degli anelli...)

Che però è un peccato perché, a differenza dei nanetti dai piedi pelosi di Tolkien, la parabola che racconta Terzani nei suoi libri, a partire dalla scoperta della Cina e dell'Oriente come corrispondente di Der Spiegel, sembra molto interessante. E, senza quella parte lì (che il film accenna a parole senza mai mostrare), risulta difficile capire il perché e il percome dell'omino barbuto che sia aggira per i monti di Orsigna.

Purtroppo il film di Baier è un po' un film da super-fan di Terzani (cioè, il film non c'è e funziona solo nella misura in cui il super-fan di Terzani ci mette di suo), risultando alla fine poco più di una extended-version della bella intervista che Terzani aveva rilasciato prima di andarsene.
Quello che si vede nel film, nell'intervista c'era già più o meno tutto (e direi pure raccontato meglio e senza ralenty) ma, soprattutto, quello che non mi sembra che passi proprio nel film è questo concetto di fine come inizio: la morte di Terzani è evocata per tutta la durata del film, è talmente potenziata da tradire l'idea che stava alla base del libro di Terzani.

E, tornando all'inizio di questo post, il problema non è tanto nel regista, quanto nel mezzo cinematografico in sé che, per sua natura, evoca continuamente la morte e, come scriveva Jean Cocteau, la filma al lavoro. E, quindi, impossibile da utilizzare per l'adattamento di un libro del genere.
Quello che poteva fare Baier (ma che non ha fatto) era spostare tutto l'asse del racconto per far capire meglio il viaggio (fisico e mentale) della vita di quest'uomo che, anche di fronte alla morte, resta un giornalista (e quindi vuole guardarla in faccia e raccontarla), il rapporto tra il desiderio di scomparire di Terzani e quello fortissimo di essere comunque presente e in primo piano, il suo tentativo in extremis di rimettere in discussione un rapporto annichilente nei confronti del figlio, quello che lo legava alla moglie che ha costruito buona parte dell'impalcatura che reggeva la sua vita e, perché no?, anche il fenomeno editoriale Terzani che tradisce una voglia di spiritualità dei nostri tempi mista alla pretesa di trovare le risposte che cerchiamo sugli scaffali di un supermercato.

Mi resta una sola immagine del film: Terzani che, nel giardino di casa, fischia e chiama a sè dei grandi corvi che vengono a mangiare dalla sue mani come se fosse la cosa più naturale del mondo.
È un'immagine molto bella (l'uomo vestito di bianco e le ali nere dei corvi), che annuncia la morte che da lì a poco arriverà, che la evoca come qualcosa di grande, misterioso ma anche di affascinante e naturale.
Ma pure qui – attenzione – stiamo parlando di un'immagine che c'era già nell'intervista (solo che, nell'intervista, i corvi erano molto più piccoli – e forse non erano nemmeno corvi – e la location era l'Himalaya).
Però, chi se ne frega? Bravo lo stesso Baier ad averla reinventata per il film.

lunedì 25 aprile 2011

Grant Morrison: All Star.

Se amate i fumetti sceneggiati da Grant Morrison, non potete non leggere Grant Morrison: All Star (Double Shot, 20 euro assolutamente ben spesi).

Giovanni Agozzino, Nicola Peruzzi e Antonio Solinas hanno fatto un ottimo lavoro, racchiudendo in oltre 300 pagine un'analisi precisa e dettagliata dell'opera dello sceneggiatore scozzese dagli esordi di fine anni '70 ad oggi, il tutto intervallato da box tematici e interviste ai vari disegnatori che nel corso degli anni hanno lavorato con Morrison.
Credo che, al mondo, sia la prima volta che viene fatta un'analisi così completa del lavoro di Morrison e, a differenza di altri saggi simili che mi è capitato di leggere dedicati ad altri autori protagonisti della new wave britannica di fine anni '80, questo si legge con grande piacere dall'inizio alla fine e senza un attimo di noia. Quindi tanti di cappello agli autori.

Leggetevi Grant Morrison: All Star dall'inizio alla fine – ma anche saltando da una parte all'altra lasciandovi guidare dalla curiosità del momento oppure sbirciando sul blog dedicato al libro – e poi, magari, fate come me: riprendete in mano The Invisibles e, alla luce di questo bel saggio, godetevi di l'opus magnum morrisoniano, simbolo di una Vertigo (e di un tipo di idea editoriale) che purtroppo non esiste più.

ps: anche se, a dirla tutta, la parte che mi è rimasta più in mente è quella in cui parla Chaz Troug, disegnatore di Animal Man schifato da tutti (Morrison compreso) che, dopo il suo "Ma anche no..." descritto a pagina 187, è diventato il mio eroe.

sabato 23 aprile 2011

Habemus Papam. 06

E prima di lasciare la parola a Nanni Moretti, un'ultima considerazione: pare a me o lanciare un sito dedicato al film (con annesso concorso) indica un mutamento di strategia di Moretti nella promozione dei suoi film?

Habemus Papam. 05

Più passa il tempo e più il cinema di Nanni Moretti diventa un cinema d'immagini.

Guardando Habemus Papam non è infatti difficile indovinare quali sono le immagini da cui il regista è partito per girare il suo film: il Papa e lo psicologo seduti uno di fronte all'altro circondati dai Cardinali (ovvero una delle messe in scena più efficaci della paradossalità insita in una qualunque seduta terapeutica) e il torneo di pallavolo tra i Cardinali.
Ma anche due scene dotate di un certo grado di perturbanza (nel senso freudiano del termine): i prelati che, dopo il grido angosciato del neo pontefice alla loro spalle, indietreggiano muti fino ad essere inghiottiti dal rettangolo nero della finestra e i cardinali in abito completo che irrompono nel buio del teatro, spalancando le tende dei palchi alla ricerca del Papa fuggito (messa in scena e uso dello zoom richiamano una scena analoga di Kubrick in Eyes Wide Shut, altra pellicola sull'entrata in crisi di un ruolo e sul successivo smarrimento dei personaggi).

Più il film di Moretti si mantiene aderente alla forza delle immagini (e quindi più si fida della potenza del cinema) più è possibile una narrazione che, dichiarata la sua matrice psicoanalitica (ossia più simbolica che metaforica), può indugiare con lo sguardo dalla parti del preconscio e delle sue rivelazioni (che era esattamente il nodo attorno al quale ruotava la novella di Schnitzler da cui Eyes Wide Shut è tratto).

La sfida di Moretti in Habemus Papam è proprio quella di riuscire a tenere per tutta la durata del film la narrazione esattamente a cavallo di quella zona di scambio tra conscio (realtà oggettiva/trama/naturalismo) e inconscio (dimensione onirica/immagine evocativa/metafisica). Il film si inceppa, infatti, quando cerca una funzionalità rappresentativa dei personaggi che non riesce ad ottenere (la psicanalista fissata con il deficit emotivo ma, in fondo, lo stesso psicanalista interpretato da Moretti che finisce per dare ragione a  Monicelli quando gli diceva "Moretti, scansati e fammi vedere il film").

Habemus Papam ruota attorno a tutte queste immagini e ad un discorso sul teatro (e sulla messa in scena) che rappresenta il fulcro di tutto il film: quando il Papa fugge dal terrazzo da cui non riesce ad affacciarsi e ritorna nella sala del conclave (accennando così ad una regressione del personaggio alle origini del trauma, cioè un volere tornare indietro a prima che tutto succedesse), il regista lo inquadra come se fosse su un palcoscenico, con la porta alle spalle e le tende ai suoi lati che ricordano un sipario aperto (ma sono tende disegnate sul muro, quindi una rappresentazione ideale di un palcoscenico).

L'origine del trauma di Melville (cioè dell'uomo e non del Papa, come indica anche lo psicologo Moretti in una battuta del film) ha forse origine lì, quando il suo ruolo è stato sostituito dalla sorella diventata al posto suo attrice. Ciò che ha logorato Melville è probabilmente questo slittamento di ruolo, l'avere per troppo tempo interpretato un ruolo parallelo al proprio (il costume è una parte fondamentale sia nel mestiere dell'attore sia in quello dell'alto prelato) ma che non era il proprio ruolo. Ed è quando questo ruolo esige un'evoluzione (da Cardinale a Papa), quando il personaggio si svela nella sua esigenza irrinunciabile di fare evolvere la trama (e quindi di sacrificare definitivamente la persona Melville al personaggio Papa), è lì che la persona, messa all'angolo dalla consapevolezza di avere costruito la propria vita su una finzione, entra in crisi e crolla.

Ed ecco quindi il senso di quell'immagine fortissima che Melville, bloccato sul limite della trasformazione in Papa, evoca: una specie di nebbia che cancella le persone, quello che hanno fatto e detto (e che la sceneggiatura sottolinea bene: non i Cardinali intorno al Papa ma le persone che nella vita Melville ha conosciuto).
Melville sta per scomparire e con lui cominciano a scomparire tutti i ricordi della sua vita.

D'altra parte anche il ruolo dell'attore impazzito è indicale di questa strada interpretativa: l'attore impazzito recita mettendo in evidenza le impalcature che sorreggono la propria interpretazione (dichiara al pubblico le indicazioni di regia) come a voler denunciare la finzione insita in qualsiasi messa in scena, sia essa quella di un attore che recita Checov o quella di una Chiesa che, pur brancolando nel buio come tutti noi, cerca disperatamente di convincere i fedeli che attraverso di essa passa un filo diretto con Dio.

E se la finzione cade, in scena non ci sono più i personaggi ma solo attori che interpretano il testo di un drammaturgo russo. E sul balcone di Piazza San Pietro non c'è più colui che Dio ha scelto come rappresentante della propria Chiesa ma solo un uomo che accetta sulle proprie spalle la disperazione di chi, amando il teatro, non può fare a meno di dichiarare: "Ma io sono soltanto un attore".

Habemus Papam. 04

Che poi secondo me Roberto Recchioni, pur usando un'immagine d'effetto che farebbe la felicità di ogni pubblicitario, si sbaglia quando scrive QUI che "Habemus Papam è un cinepanettone per la gente con i maglioncini di lana e con le camicie sotto, gli occhiali appesi al collo e le pashmine da uomo, sopra le giacche. Un cinepanettone per il PD, insomma."

Habemus Papam a me sembra più o meno l'equivalente della vittoria di Vecchioni a Sanremo. Ovvero un sample semplificato e predigerito di musica d'autore che viene apprezzato da un pubblico che quel tipo di musica (e di scrittura) nella sua versione originaria non l'ha mai voluta ascoltare.

Sono infatti pronto a scommettere che il film di Moretti, con questa visione della Chiesa che esula da qualsiasi tipo di riflessione sulla fede e sul potere che attraverso di essa viene esercitato (per concentrarsi invece sull'umanità di fondo di Papa e Cardinali), piacerà molto di più ad un pubblico che il cinema di Moretti non lo ha mai frequentato.

Quindi, non cinepanettone per il PD ma cinema d'essai per la casalinga di Rovigo.

Habemus Papam. 03

Interpretazione cine-cristologica trasversale (con spoiler).

Dio chiama il personaggio e lui, prima di scomparire in un rettangolo nero alle sue spalle, rifiuta quella chiamata, ringrazia tutti, saluta e se ne va.
Da lì in poi, vorremmo sapere altro di questo personaggio che vuole essere libero e non rendere più conto ad un pubblico oceanico.
Ma altro non è dato sapere.
Fine del film.

Affinità e divergenze tra Habemus Papam e The Truman Show.

Habemus Papam. 02

Il recalcitrante Papa di Moretti prima di diventare il Papa (visto che non gli viene dato altro nome nel film) si chiama Melville.

Premesso che lo stesso Moretti ha spiegato in un'intervista che quel nome lo ha scelto solo perché gli era rimasto in mente vedendo una retrospettiva dedicata al regista Jean-Pierre Melville, io sono un fiero sostenitore del testo aperto e, quindi,  mi piace dargli un senso a quel nome riportandolo ad Herman Melville.

Herman Melville, oltre a Mody Dick (a cui potrebbe anche rimandare quella forma bianca a cui sono in molti a dare metaforicamente la caccia durante il film di Moretti), ha scritto almeno un altro capolavoro: Bartelby lo scrivano.
Sono troppo pigro per raccontarvi la trama di questo stupendo racconto (che mi piace aggiungere che il mio amico Daniele mi fece scoprire tantissimi anni fa) e quindi lascio l'onere a uno che in queste cose è un fuoriclasse. Alessandro Baricco:



Sono diversi i parallelismi tra un sistema che entra in crisi a causa di Papa che non vuole esserlo e quello di un ufficio (o di una vita) in cui uno scrivano preferirebbe non scrivere più. In entrambi siamo di fronte al simbolo di una crisi profonda, sistemica appunto.
L'incontro con il "preferirei di no" è perturbante tanto per l'avvocato narrante di Melville (messo in crisi dal non-rifiuto di Bartleby che, in realtà, nasconde un rifiuto assoluto) quanto per la struttura ecclesiastica  rappresentata da Moretti (se si permette la possibilità di un errore da parte di dio come quello nella scelta del Papa, allora va ammesso anche che non si può più parlare di infallibilità divina).

Tanto la crisi del Papa quanto quella di Bartelby non vengono spiegate ma, tra le righe – tra i fotogrammi – si fa un accenno al passato dei due personaggi. Come a voler dire che in quel teatro abbandonato senza avere avuto il coraggio di entrarci (o in quell'ufficio delle lettere smarrite del passato di Bartelby), sono state poste le findamenta di quella crisi che si manifesterà compiutamente solo anni dopo.
Moretti e Melville non ci dicono altro di questa crisi e si limitano ad indicarci di guardare là e, se vogliamo, a farci noi la nostra idea.

Di più: sono diverse le interpretazioni del racconto di Melville dalle quali emerge una chiave di lettura messianica del personaggio di Bartelby. Un messia di quella che Melville chiamava "democrazia assoluta di tutte le cose" e per comprendere la quale – e non smentire la pigrizia di uno che confessa di non sapere altro se non cosa cercare e dove cercarlo – vi rimando a questo saggio che analizza a fondo il testo di Melville.

Habemus Papam. 01

Ero lì che guardavo Habemus Papam e, riflettendo sulla Cappella Sistina che a suon di palanche Nanni Moretti si è dovuto suo malgrado ricostruire e al brutto composing da scarse risorse che il film mette in scena ogni volta che deve mostrare la folla di Piazza San Pietro con il naso in su verso il balcone, ho pensato: "Un soggetto del genere sarebbe stato interessante vederlo sviluppato a fumetti."

Anche perché, come ha dichiarato uno degli sceneggiatori del film (Francesco Piccolo) ironizzando sull'incoscienza che alcune volte hanno gli sceneggiatori nella fase di scrittura"gli interni come gli esterni e naturalmente gli ambienti sono collocazioni fondamentali per chi legge una sceneggiatura prima della realizzazione, poiché condizionano una serie di fasi lavorative e per me scrivere interno Cappella Sistina non rappresentava nessun problema fino a quando non ho capito che la Cappella Sistina andava inventata".


Poi ci ho ripensato e mi è venuto in mente che, a fumetti, una storia con un Papa alle prese con le conseguenze della designazione a quel ruolo io l'ho già letta e si chiama Church and State, lo splendido ciclo di storie in cui Dave Sim fa diventare Papa il suo Cerebus. Che, a differenza di quello di Moretti, oltre ad avere un dialogo ben più diretto con il suo dio, lo sa benissimo perché vuole fare il Papa: perché vuole i vostri soldi.

Insomma, questo è il primo pensiero che mi è venuto in mente guardando il film: il mondo è pieno di gente che si sbatte per girare bei film che devono fare costantemente i costi con i limiti economici di chi i film li produce (limiti che poi sullo schermo si vedono tutti) quando, con la stessa cifra (e pure meno, direi), potrebbero raccontare a fumetti la stessa storia senza alcun vincolo.
Perché, anche se oggi Roberto Recchioni ci dice QUI che produrre fumetti costa eccome, è innegabile che portare al pubblico la stessa storia come film (o come serie tv) ha costi enormemente superiori.
Cioè il fumetto non si dovrebbe mai dimenticare (di pensare e di comunicare) che, uno dei suoi punti di forza è quello di rendere disponibile ad una qualsiasi produzione di storie per immagini l'intera Hollywood al costo di... un quarto di Cinecittà?

Habemus Papam funzionerebbe a fumetti? Direi proprio di sì.
E aggiungo che, per l'industria del fumetto italiano, sarebbe una benedizione mediatica se, dei mille progetti che per altrettanti motivi un Nanni Moretti non ha girato (ergo destinati a restare per sempre chiusi in un cassetto), ce ne fosse uno che un editore di fumetti decidesse di acquistare da Sacher e produrre.
A patto che non sia quello del musical del pasticciere Trozskista...

venerdì 8 aprile 2011

Due chiacchiere su "Maèstro" ed altro.

Ciao Garamond,
qui tutto bene. Il mare è fantastico quindi, per ora, ho deciso che resto qua.


Ti scrivo solo per segnalarti che Zipì ha appena pubblicato sul suo blog quella famosa intervista su MAÈSTRO dove poi parli anche di The Walking Dead.
La trovi QUI (anche se la colonna a lato te la dovrebbe già aver segnalata).


Salutami tutti anche se non mi mancano per un cazzo.


Ciao,
la tua voglia in vacanza.


ps: ...ma com'è che polemizzi sempre? E, dopo dieci anni, come fai ad averne ancora voglia?

mercoledì 6 aprile 2011

Quando la voglia è in vacanza.

So che alla fine tornerà la voglia di strutturare i pensieri per il blog. Per ora se ne è andata in vacanza.
Almeno lei.
Se mi manda una cartolina – che lo sanno tutti che a me piacciono ancora le cartoline – prometto che ve la posto.
Nell'attesa, tiro giù il poster di Sara Tommasi che ormai è scolorito.