Qualche mesetto fa mi suona il telefono e, com'è come non è, mi si dice: "Sì, vabbè, però te con la Panini c'hai il dente avvelenato. Manco che Lupoi t'avesse stirato il gatto col SUV. E poi, tra colleghi non ci sfancula via web che quando inizi anche tu a pubblicare i giornaletti, anche se ancora li leggi, poi non puoi più dire che quello è bruttarello, quell'altro fa ridere come un gavettone a dicembre e quell'altro ancora è Nirvana. Non lo puoi più fare, soprattutto se usi il megafono del tuo personale blog dove, da sempre, sei severo ma giusto. Non lo puoi più dire perché tra gentlemen publishers – come io ora con benedizione dall'alto calata ti battezzo – ci si chiama al telefono in vivavoce mentre si sfreccia verso il weekend, magari ci si da un appuntamento per il brunch e poi lì, tra un croissant e un sorso di caffè lungo, ci si scambiano i consigli, così tutto l'ambiente cresce e prospera come dici tu che vorresti che esistesse un vaccino per i lettori pecoroni."
E questa era una premessa.
Ma ora parliamo di Band of Heroes, di Paul Jenkins e di quel talentaccio di Carmine Di Giandomenico che, essendo amico mio, si becca il "talentaccio" (Jenkins pure è bravo ma, non conoscendolo, non mi azzardo).
Band of Heroes è una miniserie di 8 numeri (appuntatevela da qualche parte 'sta cosa perché, ai fini del lungo discorso che sto per propinarvi, è importante) ambientata durante la seconda Guerra Mondiale, una delle tante iniziative messe in piedi l'anno scorso da Marvel Comics per fare da contorno al debutto cinematografico di Capitan America.
La storia non parla del signore con la grossa "A" stampata sulla fronte (o, almeno, per fortuna, lo fa solo marginalmente) ma di una squadra segreta di supereroi mandati al fronte a combattere in trincea giappi e crucchi e che il Primo Vendicatore di cui sopra si limita più o meno a coordinare. Ognuno di questi eroi ha un suo superpotere e ognuno di quei superpoteri – qui l'invenzione narrativa di Jenkins – è stato al centro di un fumetto pubblicato durante le guerra dalla casa editrice Timely Comics (ovvero quella che sarebbe poi diventata la Marvel Comics), fumetti che la gente a casa leggeva e attraverso i quali l'esercito faceva azione di propaganda per gli arruolamenti.
Uso il tempo passato perché la storia inizia ai giorni nostri, quando uno di questi supereroi, Giovane Vendicatore, ormai anziano vendicatore, decide di svelare alla nipote la sua identità segreta del tempo di guerra. Le racconta anche la storia di uno di questi supereroi che la Storia (quella con la "S" maiuscola, appunto) ha dimenticato, Capitan Fiamma (sic!), spiegandole la verità dietro a quel primo numero della serie di Capitan Fiamma pubblicato ma mai arrivato nelle edicole che, però, lui è fortunosamente riuscito a salvare dal macero.
Da lì si va di flashback in flashback, a seguire la "Banda degli eroi (super)" attraverso i vari scenari dello scorso conflitto bellico mentre, nel presente, la nipote di Young Avenger (che nel frattempo è passato a miglior vita senza fare in tempo a svelare il mistero di cui sopra) indaga, facendo lo slalom tra il dio nordico Loki che gli appare in salotto, i servizi segreti e l'immancabile Shield di Nick Fury, tutti dietro quello che è conosciuto come il "Firefly project" e che pare il segreto meglio nascosto della Seconda Guerra Mondiale (ma che sono sicuro che nemmeno voi ci metterete molto a indovinare qual è).
Si diceva dell'invenzione narrativa di Jenkins.
Senza tanti giri di parole, Jenkins ci dice che le guerre si vincono tanto con le armi quanto con la propaganda, ovvero declinando a fumetti quella stessa idea che Clint Eastwood ha raccontato in Flags of our fathers.
Ve lo traduco: l'anno scorso è uscito negli USA un fumetto che diceva che i fumetti possono essere delle armi e che, durante la seconda Guerra Mondiale, quella che oggi è la Marvel Comics fabbricava armi, strumenti utili come i fucili e i cannoni a vincere la Guerra.
Che qui se uno si azzarda a scrivere "Fu vera gloria?" è un attimo che tutti lo additano come una brutta persona.
Ora, chi vi scrive, pur essendo stato per decenni lettore di fumetti di supereroi, oggi li trova una delle cose più noiose da leggere. In particolare quelli targati Marvel Comics che, per come la vedo io, hanno deciso di diventare moderni nel modo più gnocco possibile (sì, sto parlando di Civil War e di tutto quello che ne è seguito).
Ma, nonostante ciò, non mi perdo una storia che sia una di quelle che disegna Carmine per la Marvel. Perché Carmine, come già detto, è un talentaccio del narrare una storia attraverso le immagini. E lo resta anche sotto tutti quegli inutili strati di bagliori, sfocature, colori presi dalla tavolozza Carioca con cui il dio del Photoshop che gli americani adorano cerca di seppellirlo.
E in Band of Heroes Carmine è a livelli altissimi, roba che si vede lontano un miglio che, mentre sfornava una dietro l'altra le tavole del fumetto, tornava a quando aveva 8 anni e giocava coi soldatini, perché il piacere che ci comunicano le sue tavole è proprio quello (e, detto tra noi, gli elmetti degli yankee che disegna qui sono molto più belli di quelli dei crucchi che ha disegnato in Magneto Testament).
E, detto questo, ora mi tocca parlare anche di quello che proprio non mi è piaciuto di Band of Heroes.
Prima di tutto, le copertine: senza tanti giri di parole, hanno assegnato a Band of Heroes il copertinista più bolso e statico che girava in quei mesi per gli uffici della Marvel, uno dei tanti con quello stile noisamente realistico per cui un giorno Alex Ross dovrà rendere conto davanti a un tribunale (chiaro, perché chiedere a Carmine di disegnare anche le copertine quando hai sotto mano questo campioncino della mummificazione dell'azione?)
Poi, per aiutare il copertinista nella sua inefficacia, hanno deciso che questa miniserie non meritava un logo. Una bella scritta in Helvetica e via a pedalare. Vi lascio immaginare il risultato gestaltico sullo scaffale (oh, magari così piatta, nel marasma dello scaffale americano la copertina risaltava pure).
E quindi passiamo al colorista. Sai hai a disposizione il segno iperdettagliato di Carmine (che ti fa anche i toni di grigio), tu colorista devi lavorare di sottrazione. Devi fare un passettino indietro e creare dei piani che aiutino la lettura, non cercare di emergere a colpi di Photoshop (specie nelle scene di combattimento).
E soprattutto – ma qui forse le bacchettate sono da distribuire equamente tra colorista ed editor – se il disegnatore ti suggerisce che ci potrebbero essere tre piani grafici (il presente con una colorazione marvel style, un passato con colori desaturati alla Band of Brother – appunto – o alla Salvate il soldato Ryan e le pagine dei fumetti Timely raccontate a forza di retinoni sgranati), tu quel suggerimento lo devi ascoltare e seguire. Perché è la modulazione che crea il piacere di qualsiasi lettura, testone!
Ma quello che non mi è piaciuto proprio per niente è che Marvel Comics, arrivata al 5° numero (di 8, non di 108, sia ben chiaro), abbia detto "ragazzi, 'sto fumetto non vende quanto ci aspettavamo. E quindi licenziamo l'editor e decidiamo di sospenderlo").
Ma si potrà fare una roba del genere?
5 numeri già pubblicati, altri 2 già disegnati (già disegnati!) e la Marvel Comics non è nemmeno in grado di portare a conclusione la miniserie?
Sta messa bene la Casa delle idee...
E qui torniamo alla premessa (so che ve lo aspettavate, cari i miei 5 lettori e mezzo).
Facciamo finta di essere seduti al brunch e che, tra il tintinnio dei bicchieri e il brusio di cento piani editoriali pacatamente ragionati, stiamo chiacchierando amabilmente, cari colleghi editori modenesi.
Vi posso dare un consiglio? Ve lo do.
Prendete il telefono e chiamate gli uffici della Marvel Comics.
Vi fate passare Joe Quesada da Paperoga e, senza stare lì a ciurlare nel manico, gli dite: "Joe, se Band of Heroes voi non lo volete finire, lo finiamo noi italiani".
Poi, ottenuta la benedizione di Joe, fate un'altra telefonata intercontinentale e chiamate Carmine a Teramo. Gli dite: "Carmine, finisci di disegnare l'ultima storia: te la paghiamo noi. Poi prendiamo il tutto, le 5 storie già pubblicate e le 3 inedite, ti rimettiamo a posto la colorazione come doveva essere e ti ci facciamo un bel volumone che se lo pubblicassero i saldatori finirebbe diritto nella collana Maèstro. Una di quelle robe che poi lo voglio vedere Ciccarelli a dire che la Panini è la Morte Nera del fumetto italiano. Un bel volumazzo che celebri uno dei più bravi disegnatori che abbiamo oggi in Italia - sì, tu Carmine! – un disegnatore davanti al quale noi ora, con questo Band of Heroes ci cospargiamo il capino di cenere perché fino ad oggi non ci siamo nemmeno degnati di tenere disponibili per chi li voleva ordinare i 3 o 4 volumi della Marvel su cui hai lavorato".
Ecco, secondo me, questo è un bel progetto a cui una casa editrice con buone disponibilità economiche e che dice di amare il fumetto (e i suoi autori, soprattutto quelli italiani) si potrebbe dedicare senza particolari difficoltà (e notate che ho scritto "potrebbe" e non "dovrebbe").
Ma sono sicuro che voi, colleghi modenesi, ci avete già pensato e che la telefonata a Quesada è partita nell'esatto momento in cui la Marvel ha comunicato che stoppava la miniserie di Jenkins e Carmine al quinto numero.
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Piccola nota a margine per i miei cinque lettori e mezzo: se vi piace il lavoro di Carmine e vi va di fare due chiacchiere con lui sul suo lavoro, progetti passati e futuri, il prossimo 6 febbraio, fate un salto sulla sua pagina Facebook dalle 20 alle 22. Lo troverete lì pronto a rispondere alle vostre domande.
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sabato 28 gennaio 2012
martedì 20 dicembre 2011
Bevi che ti passa.
Rappresentare la depressione non è facile, anche perché spesso rappresentare diventa spettacolarizzare.
Niente di male nello spettacolarizzare la depressione (solo recentemente, al cinema, l'ha fatto Lars Von Trier con Melancholia e, con minori risultati, Paolo Sorrentino con This must be the place. Di entrambi mi sarebbe piaciuto parlarmene quando era tempo ma... cazzo, chi si ricorda più cosa volevo dire?) ma, se qualcosa può essere oggetto di spettacolo, quasi automaticamente diventa anche oggetto commercializzabile.
E se oggi, caduto il dogma dell'unicità terapeutica, per tanti motivi esiste quello che viene definito "mercato delle psicoterapie", perché stupirsi che un sottotesto depressivo possa essere utilizzato per vendere una merce?
Lunga premessa per parlare del recente spot Ferrarelle con protagonista Gianluigi Buffon.
Grazie a fratello youtube, lo vediamo qui sotto:
Gianluigi Buffon è più o meno l'icona contemporanea del portiere (credo insieme a Dino Zoff e Walter Zenga. Ovvio, appiattendo la realtà calcistica mondiale su quella italiana...) anche perché, tra una cosa e l'altra, mi pare che sia stato eletto per diverse volte "miglior portiere mondiale dell'anno".
Come soprannome Buffon si porta dietro quello che, a lungo andare, a molti potrebbe dare una certa ansia da prestazione: Superman. Altre volte invece è più semplicemente IL portiere, concetto sul quale ruota lo spot di Ferrarelle.
Com'è, come non è, un giorno IL portiere decide di regalare al mondo la sua biografia.
La scrive con l'aiuto del giornalista Roberto Perrone e decide di intitolarla "Numero 1".
Più o meno il tema del lancio del libro è "Ok i successi e le super parate ma, lontano dai flash e dalle telecamere, anche i numeri 1, i Supermen, sono vulnerabili: e infatti anche Gigi Buffon, nonostante i tanti successi che gli ha regalato una vita invidiabile per ognuno di noi miseri mortali, sapete, anche lui è stato vittima... della depressione".
E da lì Buffon è un po' diventato una delle italiche icone della depressione, la figurina che ancora ci mancava nell'album: quella del ragazzone solare (e un po' fascio) che ha tutto e che, nonostante ciò, si ammala di depressione ("sei mesi e poi, grazie alla terapia, è passata", si affretta a chiarire Buffon. Vabbè...)
E da qui arriviamo allo spot Ferrarelle.
Lo spot è raccontato da Alena Seredova che, pur definita ironicamente nel filmato la personal trainer di Buffon, in realtà è la compagna del super portiere (il che già la dice lunga sull'idea di rapporto tra uomo e donna che questo spot ci invita a condividere).
Ora, anche se nel filmato la vediamo vestita un po' da suora laica (meglio: il maggior grado di suoralaicità che si può appiccicare al corpo della Seredova senza bisogno di invocare la sospensione di incredulità), nell'immaginario collettivo Alena Seredova è altro.
Per capire qual è questo "altro" dell'immaginario collettivo, oggi basta chiederlo a zio Google.
E la risposta è più o meno questa:
Insomma, questo è il setting che lo spettatore ha in in mente nel momento in cui affronta lo spot, l'orizzonte narrativo su cui si appresta a prendere forma l'epica in 30 secondi con protagonista l'eroico difensore dell'area di rigore e la sua bella dalle voluttuose grazie.
E che cosa ci racconta questo spot?
Ci racconta – per voce di chi, come la Seredova, conosce sicuramente Buffon meglio di chiunque altro – che il portiere Superman, un bel giorno ci è entrato talmente dentro al suo ruolo di portiere da avere ad un certo punto un po' sbroccato e, da uno che di lavoro faceva il portiere, è diventato un portiere che è un portiere in qualunque cosa faccia.
Sai, capita se non smetti mai di lavorare.
Come un falegname che un giorno torna a casa e si mette a piallare tutti i mobili o un somellier che, al supermercato, improvvisamente non può fare a meno di assaggiare tutto lo scaffale dei vini.
Alienante, vero?
Cioè, punto uno: la depressione ti fa deragliare dal tuo ruolo nel mondo. Non cancella chi sei ma lo gonfia fino al parossismo.
Fa di te una maschera, magari quella del buffon...e (che, appunto, in inglese è il fool).
Una maschera che, se pure ha incisi tutti i segni necessari per ricostruire l'identità del soggetto che c'è sotto di lei, in modo grottesco denuncia pure tutti i sintomi di un'inarrestabile fallimento dello stesso soggetto.
Perché, si sa, le porte (che anche lo spot cita) aprono a mondi possibili e si spalancano su stanze della mente in cui si può entrare senza più riuscire ad uscirne (come sapeva bene Kubrick quando ne infilava un centinaio nel suo Shining).
Insomma, il Superman esploso nella depressione sta lì, nel suo mondo tutto up (e infatti, a un certo punto, nello spot si parla proprio di esaltazione) fino a che, come in ogni sindrome bipolare che si rispetti, improvvisamente il sole si oscura e lì, in mezzo al campo di calcio della vita, arriva il down.
Ovvero, il super-portiere si trasforma in uno che non riesce più nemmeno a prendere al volo una bottiglietta di plastica e, con grande imbarazzo suo e altrui, mette in scena lo spettacolo dell'improvvisa incapacità di vivere il proprio ruolo nel mondo (primo segno: non riuscire più a svolgere quel lavoro in cui, fino a ieri, si identificava e che per lui era facile e spontaneo fare come... bere un bicchier d'acqua).
Accorrete, pubblico. Venite ad ammirare con i vostri occhi il tremendo spettacolo dell'uomo imbattibile messo in ginocchio da un nemico forse più grande di lui.
L'orrore, l'orrore...
Ma ecco spuntare la donna (in realtà più madre che compagna), la madonna semi-angelicata di cui qualsiasi grado di colorata aggressività erotica è stato sbiadito in un'ininterrotta gamma di innocui grigi.
Ecco che, dagli spalti della vita in stile Grease, questa moderna Sandy interviene nel racconto a tirare fuori per i capelli l'amato Danny dal pantano in cui è finito. Because, you're the one that I want, uh uh uh...
Abbiate fiducia in lui, ci dice la donna, perché lo smarrimento del mio (e vostro) eroe è momentaneo: basta avere un po' di pazienza e aspettare il terapeutico sorso lungo (o breve, a seconda dei punti di vista) sei mesi, e hoplà, sullo squillo delle epiche trombe di 90° minuto, ecco che l'eroe risorge dagli abissi della depressione e ritorna a noi, forse ancor più imbattibile di prima.
Non più liscio/down, ma nemmeno più gassato/up.
La cura per lui (e per noi, obiettivo ultimo di questo raccontino morale proiettato sulle pareti catodiche della nostra platonica caverna) è il riallineamento su una salutare medietà.
La depressione è svanita. Sconfitta, umiliata. Superman ha vinto. Lunga vita a Superman.
Ma, purtroppo, Superman non lo sa che la tv è il luogo della rappresentazione nevrotica per eccellenza.
Non lo sa che nella tv ognuno è costretto a rivivere all'infinito ogni storia che ha già vissuto, che la tv è una stanza di specchi (che riflettono specchi, grazie al moltiplicarsi sulla rete dello spettacolo televisivo) dove, nello spazio tra uno stacco pubblicitario e l'altro, ogni personaggio è eternamente condannato ad essere chi è già stato.
Perché forse, dopo la storia dell'acqua del super portiere, andrà in onda quell'altra dell'acqua del fiume dell'oblio.
L'acqua (del) Lete, appunto,
lunedì 7 giugno 2010
Il colore magari lo scegli tu.
Cari i miei 5 lettori e 1/2, con questo post volevo condividere con voi un paio di "note a margine" di una delle pubblicità più rappresentative di questo nostro Belpaese che affonda facendo finta di nuotare a farfalla, ovvero sia questa:
Ora, se è vero quello che c'è scritto qui:
allora quella stracazzo di fabbrica mi appartiene come cittadino italiano perché prima i miei genitori e poi io l'abbiamo pagata e ripagata con le nostre tasse e, avendola pagata, ora è mia.
È, dal momento che sono tra i proprietari, propongo di raderla al suolo, bruciarla, pisciare sulle sue ceneri e, magari, dimenticare che sia mai esistita.
Ma perché tutto questo livore, vi chiederete voi?
Dunque, da dove iniziamo?
Ah sì, iniziamo da quello spot là sopra (e sorvolo sul fatto che fa ridere che qualcuno ci dica che siamo di fronte a qualcosa che nasce: è sempre Fiat, acrostico del quale le prime due lettere stavano appunto per "Fabbrica Italiana").
Che cosa ci racconta?
Ci racconta che chi tiene le redini di quella baracca (che non dimentichiamo che è nostra: l'abbiamo pagata) non ha nessun problema a vedere noi italiani come bimbini inconsapevoli che, in fondo, di quello che decide lui e la sua cricca non siamo nemmeno poi così interessati.
Anzi, non ce ne deve fregare niente.
E ce lo dice pure
Sai com'è, ci date una tetta, qualcuno che ci smerdi e un letto dove dormire e noi italiani siamo felici così.
Cioè, fino a un certo punto.
Magari qualche domanda la facciamo, alziamo la testa e, sì, "non vogliamo dormire".
Nessun problema: una storia noiosa e melensa basata sul niente, una voce calda e rassicurante e vedrai che ci dimentichiamo tutti di quanti soldi ci ha ciulato quella che è una fabbrica di famiglia finché guadagna e un fabbrica di tutti gli italiani quando c'è da sborsare.
Funziona meglio del latte caldo col miele.
Italiano, non dormi ancora?
Beh, allora ti dico che le nostre cazzo di automobili che costano assolutamente più del poco che valgono, da qui a cinque anni le andremo a vendere anche negli Stati Uniti (che però, come ai tempi degli emigranti con la valigia di cartone, per farti emozionare la chiamiamo Ameeeericaaa).
E questo mi dovrebbe convincere? No, non mi ha convinto.
Ah no, aspetta, c'è anche la parte in cui si batte cassa: cittadino, tutta questa bella roba che ti sto prospettando e tu non vuoi fare niente? Cazzo, compra almeno una Punto! Una 500!
Sì, lo so anch'io che le auto giapponesi sono migliori delle nostre da qualunque aspetto le guardi e ora ci si sono messi pure gli indiani a farci concorrenza sul prezzo.
Ma tu, cazzo, sei italiano! Compra italiano e non rompere i coglioni!
Che poi, alla fine, mica compri quella ciofeca di Fiat: compri un auto di quel nobile gruppo industriale che ha dentro, che te lo dico a fare?, Ferrari e Maserati.
Vedi un po' te…
Vabbè, la solita merda per il pubblico che guarda ancora la tv, direte voi…
Però qui il ragionamento merita un grado di approfondimento.
Ora io non voglio stare qui a disquisire sul fatto che le auto Fiat non valgano un tubo.
Voglio invece concentrarmi su un'idea di industria nazionale che, oggi, mi manda a diffusione nazionale uno spot per dirmi che sta puntando ancora tutto sull'automobile. Cioè, su quello che d'accordo che è stato il volano industriale del XX secolo ma oggi, davvero, con l'esaurirsi dei combustibili fossili e con l'innalzamento dei costi delle materie prime, non ha più nessun senso di esistere. O almeno non così.
E se il mio Paese accondiscende a una logica suicida come quella di impostare il suo futuro su un'industria che ha come perno l'automobile, questa è una roba da scendere in strada e fare le barricate.
Una rivoluzione industriale c'è stata qualche anno fa ed è quella che è passata per la rivoluzione tecnologica e le sue numerose declinazioni (la comunicazione, l'informazione, l'intrattenimento, il medicale, etc.)
Anni fa noi abbiamo avuto la possibilità di lasciarci alle spalle ruderi del secolo scorso come l'industria dell'automobile (o almeno di ridimensionarne l'impatto sulla nostra economia) e di abbracciare un'industria che poteva essere più alla portata di un Paese come il nostro che non ha le materie prima, che non ha le infrastrutture e che ha invece un forte know how creativo e che, se ci fossimo mossi per tempo e non avessimo fatto morire quel poco che avevamo già creato, aveva pure quello tecnologico (tipo con Olivetti).
Noi quel treno l'abbiamo consapevolmente (e colpevolmente) mancato di brutto e la cosa terribile è che nessuno ha pagato per questo.
Pensate solo a qualcosa di lmitato all'interno dell' "industria tecnologica" come il mondo dei videogames.
Creativita, tecnologia e marketing: quella è un industria che era assolutamente alla nostra portata e che invece nel nostro paese – che pure di quel tipo di tecnologia è consumatore – non esiste.
Qualcuno dei nostri politici si è mai mosso per incentivare corsi di studio che preparassero persone pronte ad operare in questa direzione?
Sono mai stati stanziati fondi (o creato sgravi fiscali) per far nascere software house o aziende mirate a questo tipo di business?
Niente. Nulla.
E perché? Perché la nostra industria riesce a immaginarsi solo in funzione dell'automobile.
E allora è proprio in funzione di questo pensiero unico ed ossessivo noi, come proprietari di quella industria, la dovremmo togliere di torno, eliminare, fosse solo per obbligarci a pensare un futuro industriale diverso.
E poi, cazzo, tornando alla fabbrica Italia: è roba mia, pago pure e tutto quello che posso fare è magari scegliere il colore?
Ma andatevene a vaffanculo!
Ora, se è vero quello che c'è scritto qui:
allora quella stracazzo di fabbrica mi appartiene come cittadino italiano perché prima i miei genitori e poi io l'abbiamo pagata e ripagata con le nostre tasse e, avendola pagata, ora è mia.
È, dal momento che sono tra i proprietari, propongo di raderla al suolo, bruciarla, pisciare sulle sue ceneri e, magari, dimenticare che sia mai esistita.
Ma perché tutto questo livore, vi chiederete voi?
Dunque, da dove iniziamo?
Ah sì, iniziamo da quello spot là sopra (e sorvolo sul fatto che fa ridere che qualcuno ci dica che siamo di fronte a qualcosa che nasce: è sempre Fiat, acrostico del quale le prime due lettere stavano appunto per "Fabbrica Italiana").
Che cosa ci racconta?
Ci racconta che chi tiene le redini di quella baracca (che non dimentichiamo che è nostra: l'abbiamo pagata) non ha nessun problema a vedere noi italiani come bimbini inconsapevoli che, in fondo, di quello che decide lui e la sua cricca non siamo nemmeno poi così interessati.
Anzi, non ce ne deve fregare niente.
E ce lo dice pure
Sai com'è, ci date una tetta, qualcuno che ci smerdi e un letto dove dormire e noi italiani siamo felici così.
Cioè, fino a un certo punto.
Magari qualche domanda la facciamo, alziamo la testa e, sì, "non vogliamo dormire".
Nessun problema: una storia noiosa e melensa basata sul niente, una voce calda e rassicurante e vedrai che ci dimentichiamo tutti di quanti soldi ci ha ciulato quella che è una fabbrica di famiglia finché guadagna e un fabbrica di tutti gli italiani quando c'è da sborsare.
Funziona meglio del latte caldo col miele.
Italiano, non dormi ancora?
Beh, allora ti dico che le nostre cazzo di automobili che costano assolutamente più del poco che valgono, da qui a cinque anni le andremo a vendere anche negli Stati Uniti (che però, come ai tempi degli emigranti con la valigia di cartone, per farti emozionare la chiamiamo Ameeeericaaa).
E questo mi dovrebbe convincere? No, non mi ha convinto.
Ah no, aspetta, c'è anche la parte in cui si batte cassa: cittadino, tutta questa bella roba che ti sto prospettando e tu non vuoi fare niente? Cazzo, compra almeno una Punto! Una 500!
Sì, lo so anch'io che le auto giapponesi sono migliori delle nostre da qualunque aspetto le guardi e ora ci si sono messi pure gli indiani a farci concorrenza sul prezzo.
Ma tu, cazzo, sei italiano! Compra italiano e non rompere i coglioni!
Che poi, alla fine, mica compri quella ciofeca di Fiat: compri un auto di quel nobile gruppo industriale che ha dentro, che te lo dico a fare?, Ferrari e Maserati.
Vedi un po' te…
Vabbè, la solita merda per il pubblico che guarda ancora la tv, direte voi…
Però qui il ragionamento merita un grado di approfondimento.
Ora io non voglio stare qui a disquisire sul fatto che le auto Fiat non valgano un tubo.
Voglio invece concentrarmi su un'idea di industria nazionale che, oggi, mi manda a diffusione nazionale uno spot per dirmi che sta puntando ancora tutto sull'automobile. Cioè, su quello che d'accordo che è stato il volano industriale del XX secolo ma oggi, davvero, con l'esaurirsi dei combustibili fossili e con l'innalzamento dei costi delle materie prime, non ha più nessun senso di esistere. O almeno non così.
E se il mio Paese accondiscende a una logica suicida come quella di impostare il suo futuro su un'industria che ha come perno l'automobile, questa è una roba da scendere in strada e fare le barricate.
Una rivoluzione industriale c'è stata qualche anno fa ed è quella che è passata per la rivoluzione tecnologica e le sue numerose declinazioni (la comunicazione, l'informazione, l'intrattenimento, il medicale, etc.)
Anni fa noi abbiamo avuto la possibilità di lasciarci alle spalle ruderi del secolo scorso come l'industria dell'automobile (o almeno di ridimensionarne l'impatto sulla nostra economia) e di abbracciare un'industria che poteva essere più alla portata di un Paese come il nostro che non ha le materie prima, che non ha le infrastrutture e che ha invece un forte know how creativo e che, se ci fossimo mossi per tempo e non avessimo fatto morire quel poco che avevamo già creato, aveva pure quello tecnologico (tipo con Olivetti).
Noi quel treno l'abbiamo consapevolmente (e colpevolmente) mancato di brutto e la cosa terribile è che nessuno ha pagato per questo.
Pensate solo a qualcosa di lmitato all'interno dell' "industria tecnologica" come il mondo dei videogames.
Creativita, tecnologia e marketing: quella è un industria che era assolutamente alla nostra portata e che invece nel nostro paese – che pure di quel tipo di tecnologia è consumatore – non esiste.
Qualcuno dei nostri politici si è mai mosso per incentivare corsi di studio che preparassero persone pronte ad operare in questa direzione?
Sono mai stati stanziati fondi (o creato sgravi fiscali) per far nascere software house o aziende mirate a questo tipo di business?
Niente. Nulla.
E perché? Perché la nostra industria riesce a immaginarsi solo in funzione dell'automobile.
E allora è proprio in funzione di questo pensiero unico ed ossessivo noi, come proprietari di quella industria, la dovremmo togliere di torno, eliminare, fosse solo per obbligarci a pensare un futuro industriale diverso.
E poi, cazzo, tornando alla fabbrica Italia: è roba mia, pago pure e tutto quello che posso fare è magari scegliere il colore?
Ma andatevene a vaffanculo!
martedì 4 maggio 2010
Snob is good!
Sono snob e non credo che ci sia nulla di male.
Anzi. Essere snob oggi è assolutamente "IN".
Tipo che all'amico Voglino il film di Wes Anderson Fantastic Mr. Fox non è piaciuto perché lui dice che era snob.
Era snob? E codesti cazzi! A me è piaciuto eccome!
Mr. Fox sta alla poetica di Anderson (talmente snob che Salvatores può copiare il cöté de I Tennenbaum e nessuno in sala se ne accorge) come Nightmare Before Christmas sta a quella di Tim Burton (che non ha mai accettato di essere snob. E infatti oggi gira solo dei peti tonanti come Alice).
Lo ripeto: snob is good (e, visto che è in inglese lo metto tutto in corsivo perché… sono snob).
Prendete i fumetti, per esempio.
Come già detto in un precedente post, lo scorso weekend ero a Napoli per l'annuale appuntamento del Comicon (e questo, detto così, è già parecchio snob).
Il Comicon quest'anno era diviso in due parti: a Castel S.Elmo c'erano le mostre e gli editori (cioè il paradiso di noi snob che adoriamo accarezzare i volumi) mentre alla Fiera d'Oltremare c'era la fetecchia puzzolente che compra i gadget, i manga e si pittura da cosplayer.
Certo, le donne a Oltremare erano più nude, ma quelle di S.Elmo adoperavano meglio la lingua.
Intendo dire quella italiana, malpensanti.
Io sono contento che la fiera quest'anno fosse divisa così, un po' perché sono snob (e la calca mi adombra) e un po' perché la cassa è la stessa (e quindi, anche se in due luoghi separati, tutto quello sempre Comicon è).
Al mattino sono stato ad Oltremare, ho pranzato al Vomero e al pomeriggio ero a Sant'Elmo. Il che significa che non era tutta questa impresa titanica spostarsi da un luogo all'altro e che, in fin dei conti, ognuno poteva vedere tutto e poi scegliere quello che più lo aggradava.
Di più: credo che con questa logistica agli editori sia stata data una concreta possibilità di farsi un esame di coscienza, domandandosi qual è il rapporto tra le loro proposte editoriali e il pubblico che le acquista. Che tanto chi cerca il gadget, chi si veste da Sailor Moon o chi legge Death Note di, che so?, Rughe (di Paco Roca) se ne sbatte altamente gli zebedei.
Ma questa probabilmente è accademia visto che, per quello che mi riguarda, da anni ho tratto la conclusione che non esiste fiera di fumetto in Italia che offra prospettive di guadagno commerciale ad un piccolo editore (come ad esempio è saldaPress).
Da snob, comunque, una cosa che non capisco è come, dati di affluenza e di vendita alla mano, ai lettori italiani piaccia tanto andare alla fiera di Lucca e meno a quella di Napoli: a parità di bellezza/interesse culturale a Lucca, quando c'è la Fiera, c'è solo la Fiera.
A Napoli, quando sei stanco della fiera ed esci… cazzo, c'è Napoli!
Vabbè, come diceva Pazzaglia, non capisco ma mi adeguo…
Ma non è di questo che volevo parlare.
Volevo invece dire che il nome più snob di fumettista oggi in Italia è quello di Tuono Pettinato.
Io di un autore che ha scelto per se il nom de plume di Tuono Pettinato acquisterei e leggerei tutto.
E infatti lo sto facendo.
Apocalypso - Gli anni dozzinali pubblicato da Coniglio Editore è un libro stratosferico che consiglio a tutti voi, cari i miei 5 lettori e 1/2, un pamphlet a fumetti dove la fa la padrone l'amore per la Chiesa e il clero.
E aggiungo: che cosa c'è di più snob di creare una rivista con altri autori assolutamente snob (i Super Amici) che si chiama Picnic (vabbè, su questo avrei qualcosa da ridire, ma sorvoliamo…) e dentro metterci Bastardi da guerra, un fantastico fumetto incentrato sulla guerra del Vietnam con protagonisti dei cani?
E la cosa più snob di tutte è che Picnic è GRATIS!
Tuono Pettinato è la contemporaneità al potere!
(che poi questa folata di vento snob mi sa che crea anche una certa confusione nelle menti umane se l'anno scorso i lettori di XL hanno decretao che il miglior fumetto fosse Ratman e quest'anno la snobbissima opera Hanchi, Pinchi e Panchi di Maicol e Mirco)
Ma nemmeno di questo volevo parlare, diamine.
Volevo invece dirvi che venerdì sera, sempre a Napoli, ero a cena con l'artista Daw (che era artista ce l'aveva scritto sul pass che continuava ad esibire con malcelato orgoglio), con il di lui editore e con la di lui (l'editore, non Daw) consorte (poi alla cena erano presenti anche Zipì Perullo e Giuliano Giunta, ma sono snob e quindi su loro due sorvolo, come sul fatto che, per la prima volta a Napoli, la pizza ordinata facesse ribrezzo).
Ma chi è Daw?
Daw è un giovane fumettista bergamasco, perrennemente sotto una sostanza stupefacente parente stretta della cocaina che però lui stesso produce all'interno del suo corpo (e di cui quindi si può alimentare tranquillamente senza che il suo conto in banca ne risenta).
Daw è anche l'autore del fumetto dal titolo più snob in assoluto al momento in Italia: "A" come ignoranza.
Alessio De Lamegi (che è così snob da non riuscire ad indicare un fumetto che non gli piace e da pensare che, quando si parla di fumetto, ogni sforzo, in fondo, vada premiato) mi disse tempo fa di tenere d'occhio Daw e praticamente mi obbligò ad acquistare un suo fumetto. Io non lo feci (termine snob per la cacca) ma, a Napoli, finsi con Daw di essere un suo lettore mentre invece ero semplicemente un suo sfogliatore. Ebbene sì, lo confesso. Il mio fu un tiro mancino.
Ma poi, a Napoli, "A" lo acquistai e lo lessi, per cui ora basta rompermi i coglioni.
Ora titolo dell'opera a parte (che è geniale, oltre che snob), la cosa più snob di tutte è sborsare 6.90 alla ProGlo Edizioni (che di "A" ne ha pubblicati finora ben 4 volumi… e 1/2) per leggersi con orgoglio un fumetto che, nè più nè meno, è quello che ognuno di noi, alle superiori, ha visto disegnare da quello che nella classe era il tizio che faceva i fumetti.
Avete presente quell'umorismo da quinta ginnasio che al tempo vi faceva tanto ridere? "A" è esattamente così. E voi, oggi, pagherete per averlo e sfoggiarlo in società.
Il vero snob vi direbbe che in un qualche modo l'umorismo demenziale di "A" si rifà a quello di manga come, chessò?, Enomoto, ma io sono così snob che a me Enomoto, a differenza di "A", non mi ha mai fatto ridere.
"A" fa ridere.
Fa veramente ridere.
Farà ridere Ren che ama le malattie psichiche e a cui lo presterò.
"A" vi rende orgogliosi di sentirvi scemi.
Vi libera l'orgone e, mentre godete, vi fa sentire parte del tutto.
E questo senza considerare che, alle fiere, lo stand dove c'è Daw che disegna e blatera è sempre imballato di femmine adoranti. E se non le vedete è solo perché le coprono i muscoli di Giuliano che di Daw è diventato a Napoli il fan #1.
Detto questo, Daw, effetto della cocaina endogena o meno, è genio puro. E la prova di ciò è che ha inventato un personaggio archetipico come Sbranzo (che è poi quello che avete visto in apertura di post).
Sbranzo è il fiore all'occhiello del fumetto italiano del XXI secolo e, credetemi, è così snob appuntarselo al bavero.
Snob is good, non dimenticatelo mai mentre attraversate spensierati i panorami delle vostre città.
Anzi. Essere snob oggi è assolutamente "IN".
Tipo che all'amico Voglino il film di Wes Anderson Fantastic Mr. Fox non è piaciuto perché lui dice che era snob.
Era snob? E codesti cazzi! A me è piaciuto eccome!
Mr. Fox sta alla poetica di Anderson (talmente snob che Salvatores può copiare il cöté de I Tennenbaum e nessuno in sala se ne accorge) come Nightmare Before Christmas sta a quella di Tim Burton (che non ha mai accettato di essere snob. E infatti oggi gira solo dei peti tonanti come Alice).
Lo ripeto: snob is good (e, visto che è in inglese lo metto tutto in corsivo perché… sono snob).
Prendete i fumetti, per esempio.
Come già detto in un precedente post, lo scorso weekend ero a Napoli per l'annuale appuntamento del Comicon (e questo, detto così, è già parecchio snob).
Il Comicon quest'anno era diviso in due parti: a Castel S.Elmo c'erano le mostre e gli editori (cioè il paradiso di noi snob che adoriamo accarezzare i volumi) mentre alla Fiera d'Oltremare c'era la fetecchia puzzolente che compra i gadget, i manga e si pittura da cosplayer.
Certo, le donne a Oltremare erano più nude, ma quelle di S.Elmo adoperavano meglio la lingua.
Intendo dire quella italiana, malpensanti.
Io sono contento che la fiera quest'anno fosse divisa così, un po' perché sono snob (e la calca mi adombra) e un po' perché la cassa è la stessa (e quindi, anche se in due luoghi separati, tutto quello sempre Comicon è).
Al mattino sono stato ad Oltremare, ho pranzato al Vomero e al pomeriggio ero a Sant'Elmo. Il che significa che non era tutta questa impresa titanica spostarsi da un luogo all'altro e che, in fin dei conti, ognuno poteva vedere tutto e poi scegliere quello che più lo aggradava.
Di più: credo che con questa logistica agli editori sia stata data una concreta possibilità di farsi un esame di coscienza, domandandosi qual è il rapporto tra le loro proposte editoriali e il pubblico che le acquista. Che tanto chi cerca il gadget, chi si veste da Sailor Moon o chi legge Death Note di, che so?, Rughe (di Paco Roca) se ne sbatte altamente gli zebedei.
Ma questa probabilmente è accademia visto che, per quello che mi riguarda, da anni ho tratto la conclusione che non esiste fiera di fumetto in Italia che offra prospettive di guadagno commerciale ad un piccolo editore (come ad esempio è saldaPress).
Da snob, comunque, una cosa che non capisco è come, dati di affluenza e di vendita alla mano, ai lettori italiani piaccia tanto andare alla fiera di Lucca e meno a quella di Napoli: a parità di bellezza/interesse culturale a Lucca, quando c'è la Fiera, c'è solo la Fiera.
A Napoli, quando sei stanco della fiera ed esci… cazzo, c'è Napoli!
Vabbè, come diceva Pazzaglia, non capisco ma mi adeguo…
Ma non è di questo che volevo parlare.
Volevo invece dire che il nome più snob di fumettista oggi in Italia è quello di Tuono Pettinato.
Io di un autore che ha scelto per se il nom de plume di Tuono Pettinato acquisterei e leggerei tutto.
E infatti lo sto facendo.
Apocalypso - Gli anni dozzinali pubblicato da Coniglio Editore è un libro stratosferico che consiglio a tutti voi, cari i miei 5 lettori e 1/2, un pamphlet a fumetti dove la fa la padrone l'amore per la Chiesa e il clero.
E aggiungo: che cosa c'è di più snob di creare una rivista con altri autori assolutamente snob (i Super Amici) che si chiama Picnic (vabbè, su questo avrei qualcosa da ridire, ma sorvoliamo…) e dentro metterci Bastardi da guerra, un fantastico fumetto incentrato sulla guerra del Vietnam con protagonisti dei cani?
E la cosa più snob di tutte è che Picnic è GRATIS!
Tuono Pettinato è la contemporaneità al potere!
(che poi questa folata di vento snob mi sa che crea anche una certa confusione nelle menti umane se l'anno scorso i lettori di XL hanno decretao che il miglior fumetto fosse Ratman e quest'anno la snobbissima opera Hanchi, Pinchi e Panchi di Maicol e Mirco)
Ma nemmeno di questo volevo parlare, diamine.
Volevo invece dirvi che venerdì sera, sempre a Napoli, ero a cena con l'artista Daw (che era artista ce l'aveva scritto sul pass che continuava ad esibire con malcelato orgoglio), con il di lui editore e con la di lui (l'editore, non Daw) consorte (poi alla cena erano presenti anche Zipì Perullo e Giuliano Giunta, ma sono snob e quindi su loro due sorvolo, come sul fatto che, per la prima volta a Napoli, la pizza ordinata facesse ribrezzo).
Ma chi è Daw?
Daw è un giovane fumettista bergamasco, perrennemente sotto una sostanza stupefacente parente stretta della cocaina che però lui stesso produce all'interno del suo corpo (e di cui quindi si può alimentare tranquillamente senza che il suo conto in banca ne risenta).
Daw è anche l'autore del fumetto dal titolo più snob in assoluto al momento in Italia: "A" come ignoranza.
Alessio De Lamegi (che è così snob da non riuscire ad indicare un fumetto che non gli piace e da pensare che, quando si parla di fumetto, ogni sforzo, in fondo, vada premiato) mi disse tempo fa di tenere d'occhio Daw e praticamente mi obbligò ad acquistare un suo fumetto. Io non lo feci (termine snob per la cacca) ma, a Napoli, finsi con Daw di essere un suo lettore mentre invece ero semplicemente un suo sfogliatore. Ebbene sì, lo confesso. Il mio fu un tiro mancino.
Ma poi, a Napoli, "A" lo acquistai e lo lessi, per cui ora basta rompermi i coglioni.
Ora titolo dell'opera a parte (che è geniale, oltre che snob), la cosa più snob di tutte è sborsare 6.90 alla ProGlo Edizioni (che di "A" ne ha pubblicati finora ben 4 volumi… e 1/2) per leggersi con orgoglio un fumetto che, nè più nè meno, è quello che ognuno di noi, alle superiori, ha visto disegnare da quello che nella classe era il tizio che faceva i fumetti.
Avete presente quell'umorismo da quinta ginnasio che al tempo vi faceva tanto ridere? "A" è esattamente così. E voi, oggi, pagherete per averlo e sfoggiarlo in società.
Il vero snob vi direbbe che in un qualche modo l'umorismo demenziale di "A" si rifà a quello di manga come, chessò?, Enomoto, ma io sono così snob che a me Enomoto, a differenza di "A", non mi ha mai fatto ridere.
"A" fa ridere.
Fa veramente ridere.
Farà ridere Ren che ama le malattie psichiche e a cui lo presterò.
"A" vi rende orgogliosi di sentirvi scemi.
Vi libera l'orgone e, mentre godete, vi fa sentire parte del tutto.
E questo senza considerare che, alle fiere, lo stand dove c'è Daw che disegna e blatera è sempre imballato di femmine adoranti. E se non le vedete è solo perché le coprono i muscoli di Giuliano che di Daw è diventato a Napoli il fan #1.
Detto questo, Daw, effetto della cocaina endogena o meno, è genio puro. E la prova di ciò è che ha inventato un personaggio archetipico come Sbranzo (che è poi quello che avete visto in apertura di post).
Sbranzo è il fiore all'occhiello del fumetto italiano del XXI secolo e, credetemi, è così snob appuntarselo al bavero.
Snob is good, non dimenticatelo mai mentre attraversate spensierati i panorami delle vostre città.
venerdì 16 aprile 2010
Un germoglio di sentimento.
Lo so, vi dovrei parlare di tante cose.
Tipo che sono usciti dal cilindro i primi nomi degli autori che quest'anno parteciperanno alla terza edizione del Picnic! Festival (li trovate QUI) o che probabilmente durante la prossima Napoli Comicon si incontreranno su uno stesso ring il sottoscritto, tovarisch Ruggiero, Alessandro Bilotta e Carmine Di Giandomenico per parlare del traguardo raggiunto con l'essere tutti sopravvissuti alla pubblicazione del quarto volume de La Dottrina (ma siamo ancora in attesa che Don King confermi luogo, data e ora dell'evento).
Oppure che, con l'arrivo della Disney in casa Marvel, sembra che la nostrana Panini abbia appena perso lo ius primae noctis che aveva da tempo sul licensing internazionale di Spidey & co. (e che, come è stato rivelato con sgùp dal Botterone nazionale QUI, avrebbe pure taglieggiato la Marvel – alla canna del gas ai tempi della stipula del contratto di esclusiva – strappandogli la possibilità di non pagare una roba da due lire come i diritti di esclusiva).
O anche che Marco Rizzo (già padroncino di Comicus e impiegato a mezzo servizio in casa BD) ora siede sulla panchina lunga degli editor Panini (che poi, che il vero significato della parola "editor" in un casa editrice e il ruolo che a Modena intendono con questa parola siano due cose completamente diverse, sarebbe di scarsa importanza ai fini del racconto).
Ma è una così bella giornata di sole fuori dalla finestra e, quindi, a chi volete che interessino queste facezie? Non di certo a me.
Vi racconto allora che dentro di me si nasconde un traduttore inespresso (in buona compagnia di tante altre cose inespresse).
È quello che fa sì che, come editor (oh sì, che bello! Anche io editor, anche io!), scassi le balle fino all'inverosimile al buon Tosco quando traduce Liberty Meadows o PvP. Ma mica perché lo traduce male. Anzi. E solo che il Tosco è uno che sta al gioco, forse perché anche lui si diverte a cercare il virtuosismo di traduzione. O forse perché sa che lo devo ancora pagare… Anche il Maestro Voglino credo che ne sappia qualcosa della mia puntigliosità per le traduzioni (però la bella cavalcata che abbiamo fatto insieme per Casanova, anche se il pubblico italiano quel libro non l'ha capito per un cazzo, è qualcosa di cui, come editore, sono davvero orgoglioso).
È sempre il traduttore inespresso che c'ho nascosto dentro quello che ci gode un sacco quando, a una parola inglese che non conoscevo, riesco ad associarne una di quelle poco usate dall'italiano medio e che invece fanno così bella la nostra lingua.
Tipo, l'altro giorno "ammennicoli" (o "gingilli") per "trinkets".
Tutto questo per dire che cosa?
Due cose.
La prima è che se, per caso, aprendo L'annuario 2010 di Fumo di china vi imbatteste in questo "premio Oscar alla minchiata in un'intervista" (di non mi ricordo chi a Giacomo Bevilacqua, autore di "A Panda piace…"):
(domanda): A Panda piace. E a Giacomo Bevilacqua?
(risposta): Pure.
e decideste di lasciare in edicola la rivista, fareste male perché così facendo vi perdereste un bel pezzo di Leonardo Rizzi sul… problema dei traduttori (che mi ha fatto pensare che, in giro, ce ne dovrebbero essere di più di pezzi così).
La seconda invece è che, come forse buona parte di voi miei attentissimi 5 lettori e 1/2 si è già accorta, questo mese mi sono preso la balla per gli Eels.
Così l'altro giorno, guidando verso casa, stavo traducendo mentalmente il testo di una loro canzone, "Fresh feeling" (molto bella, sia perché inizia con una banalità gratuita di archi, sia perché finisce con un gioioso e liberatorio pestare sui piatti della batteria).
Ero lì che ascoltavo e mi dicevo: "Mmm, sentimento fresco sa di pubblicità per mentine. Nuovo sentimento? Bah, c'ha la stessa forza del pugno di Vicky il Vichingo. E poi c'è già il sentimento nuevo di Battiato. No no, qui un bravo traduttore per renderlo dovrebbe avere una botta di pensiero laterale".
E allora mi è venuto in mente che "fresh" può essere la caratteristica di qualcosa che è nuovo, qualcosa di vivo e appena spuntato.
Qualcosa di fresco sì, ma come un frutto (o una verdura).
Qualcosa di pieno di vita come… un germoglio.
E così l'aggettivo difficilmente traducibile (non tanto per il senso quanto per… il sapore) diventa sostantivo.
Fresh feeling. Un germoglio di sentimento, appunto.
E, mentre pensavo a questa cosa del germoglio, mi è venuta anche in mente la cipolla che la settimana scorsa mi è germogliata nella dispensa: il giorno prima stava lì senza particolari entusiasmi e quello dopo, zac!, sembrava la Pianta de La Piccola Bottega degli Orrori che allungava i suoi tentacoli per conquistare il mondo.
Fateci caso: quando aprite la dispensa e trovate una cipolla germogliata (o anche una patata), avete sempre la sensazione che i tentacoli verdi si siano bloccati nell'esatto momento in cui avete aperto lo sportello della dispensa e che l'alliacea (o il tubero) se ne stiano immobili solo perché sperano che, così facendo, voi non vi accorgiate di loro e dei loro subdoli piani di invasione.
Una cipolla o una patata germogliate ci chiariscono definitivamente la natura aliena delle verdure.
Come i funghi o i broccoli, quelli standard o, pure peggio, quelli advanced – tipo quello che avete trovato in apertura di articolo e che vi domandavate cosa cacchio c'entrasse con ciò che stavate leggendo – che possono solo essere usciti da un sogno bagnato partorito dalla mente di Benoit Mandelbrot).
Detto ciò, ecco qua il testo della canzone degli Eels:
You don't have a clue / What it is like / To be next to you
I'm here to tell you / That it is good / That it is true
Birds singing a song / Old paint is peeling / This is that fresh / That fresh feeling
Words can't be that strong / My heart is realing / This is that fresh / That fresh feeling
Try / Try to forget / What's in the past / Tomorrow is here
Love / Orange sky above / Lighting your way/ There's nothing to fear
Birds singing a song / Old paint is peeling / This is that fresh / That fresh feeling
Words can't be that strong / My heart is realing / This is that fresh / That fresh feeling
Some people are good / Babe in the 'hood / So pure and so free
I make a safe bet / You're gonna get / Whatever you need
Birds singing a song / Old paint is peeling / This is that fresh / That fresh feeling
Words can't be that strong / My heart is realing / This is that fresh / That fresh feeling
That fresh feeling / This is that fresh feeling
Qui sotto invece un video in cui la canzone compare (dedicato al Tosco che dai tempi delle Medie mi sopporta e che, come fan di Scrubbs, conosce tutte le canzoni della serie a memoria):
(comunque, cari i miei 5 lettori e 1/2, "Gingilli inutili" – Useless Trinkets – è il titolo di una corposissima raccolta di b-sides degli Eels che trovate ben recensita QUI).
martedì 12 gennaio 2010
Lunga vita allo spirito Roadie.
Le persone migliori che conosco sono dei roadie.
Cioè, non sono roadie veri e propri, ma roadie nello spirito.
Il roadie è quel personaggio unico che, in un concerto rock, si assicura che tutto funzioni: veste di nero per confondersi con lo sfondo del palcoscenico, si muove veloce e, se entra in scena per sistemare una spina o sostituire un microfono, non fai in tempo a notarlo ed è già scomparso.
I roadie non lavorano per la fama ma soltanto perché lo spettacolo funzioni, la sua star brilli e il pubblico si diverta.
Senza di loro l'universo semplicemente crollerebbe. Loro lo tengono in piedi e, se serve, lo sistemano con nastro adesivo e fil di ferro. E, quando il loro lavoro lo fanno bene, il segno è che non ti accorgi che ci sono.
Il roadie è per sua intima natura una persona che non può fare a meno di essere generosa.
Tim Schafer è esattamente un roadie.
Appartiene a quella schiera di game designer che, negli anni '90, hanno fatto grande il nome degli adventure game e, nello specifico, quello della Lucasarts (appunto, la stella ingrata sul palcoscenico).
Il suo nome ce lo ricordiamo in pochi e quasi tutti geek (qualcuno pure lettore di Rogue Leaders), ma tutti avremo per sempre nel cuore sia il Manny Calavera di Grim Fandango che il Ben di Full Throttle per come Schafer li ha scritti, disegnati e diretti.
Le avventure firmate da Tim Schafer le riconosci subito: hanno sempre delle grandi storie, ambientazioni che sono dei veri e propri mondi in cui immergersi, eroi riluttanti destinati loro malgrado a cambiare il mondo e, soprattutto, motori, grossi motori che rombano accompagnati da musica rock ad altissimo volume.
Oggi Tim Schafer è ritornato alla grande con un titolo (e una casa di produzione, la Double Fine) che, semplicemente, è stato quello che mi ha convinto all'acquisto di una PS3 (insieme all'aver finalmente metabolizzato il profondo senso di delusione per le promesse non mantenute della Wii): Brütal Legend.
E da oggi anche il roadie Eddie Riggs ha un posto speciale nel mio cuore.
Eddie Riggs e il protagonista del gioco ed è un roadie. In punto di morte – o forse come visione post mortem – si ritrova a vivere un'avventura in un mondo costruito sull'estetica Metal, un mondo che dovrà attraversare a piedi o a bordo di un bolide fiammante (e fiammaggiante), armato di un'ascia bipenne e una chitarra elettrica.
I cattivi sono metallari passati al lato oscuro della musica rock (il glam), tristi maschere dalla chiara origine goth o addirittura bizzari mutanti in stile Marilyn Manson.
Gli amici (e alleati) di Eddie sono cotonatissime metal ladies, headbanger dal collo ipersviluppato e motoclisti truzzi in sella ai loro chopper.
Le guerre tra eserciti sono concerti a colpi di fan (aggiudicarsene le anime significa vincere) e Eddie non è l'eroe della storia (almeno non subito): Eddie è un roadie e quindi l'eroe (alto, biondo e bello) lui lo aiuta.
Ma poi le cose si fanno ingarbugliate e si comincia ad intuire che tutta la storia è iniziata mooooolto tempo prima, in un epoca in cui le leggende solcavano la terra.
Ora, la vita è breve e io tendo a dilungarmi in quello che scrivo, perciò sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio e spariamo subito alto: mi interessa poco parlare del gameplay o dei FPS di Brütal Legend, di dissertare se i momenti free roaming del gioco funzionano meglio delle sezioni strategiche.
Quello che è importante è che Brütal Legend aspira tranquillamente a rappresentare per il Metal quello che Blues Brothers ha rappresentato per la musica soul.
Altri tempi, altri media ma entrambi capolavori (per Brütal Legend basta vedere l'interfaccia a 33 giri con cui si apre il gioco: semplicemente geniale).
L'approccio di entrambe le opera alla musica attorno a cui sono costruite è infatti divertito, divertente ma sempre e comunque reverenziale.
In Blues Brothers John Landis può permettersi di chiedere a una dea del soul come Aretha Franklin di interpretare la moglie in ciabatte e grembiule da cameriera perché lui non è lì per sfanculare nessuno, ma solo in quanto devoto a quella musica –che non vuole che venga dimenticata– e agli artisti che l'hanno resa grande.
Stessa cosa per Tim Schafer che affida a Ozzy Osbourne il ruolo del Guardiano del Metal e a Lemmy Kilmister dei Motorhead quello del pavido aiutante del protagonista).
La colonne sonore di entrambe le opere sono supreme (quella di Brütal Legend la trovate QUI e, come immaginerete se siete lettori affezionati di questo blog, per me l'unico neo è che tra gli artisti coinvolti non ci siano i miei amati Wolfmother).
Jack Black nei panni di Eddie Riggs è totalmente in parte. Talmente in parte che la parte cessa presto di esistere e Riggs e Black diventano prefettamente interscambiabili. Esattamente come succedeva a Belushi&Aycroyd nei panni dei fratelli Blues.
Se vi siete per caso imbattuti in quel gioiellino che è Tenacious D e il Destino del Rock (altrimenti cercatevelo: è molto più divertente ed onesto del massificato School of Rock) avete ben chiaro quello di cui sto parlando. Black ama la musica Metal, venera i suoi artisti ed è davvero l'attore perfetto per dare il volto, la voce e le movenze al personaggio digitale di Eddie Riggs.
La fisicità di Jack Black è infatti unica: tutti i personaggi che interpreta sono eroici senza essere seri e buffi senza essere comici, adulti e bambini insieme. Un attimo ruggiscono di energia e quello dopo sono in preda agli abissi della malinconia. Sembrano dei cartoni animati e, con un gesto, immaginano una nuova vita per il mondo che li circonda.
Resta solo da dire che, a gioco terminato (col cattivo sconfitto in un bagno di sangue cantando a squarciagola "Decapitatiooooon!": vorrei davvero conoscerlo il fesso che gioca Brütal Legend con attivata l'opzione "no gore, please") vi ritroverete a girare ancora per delle ore attraverso il mondo di gioco; un po' per completare le numerose missioni secondarie che sicuramente vi sarete lasciati alle spalle ma un po' – no, anzi: soprattutto – per ammirare la notte che insegue il giorno in un cielo dove i lampi all'orizzonte hanno il suono delle chitarre elettriche e i tuoni quello della batteria. Lo farete per giungere sulla riva di un mare che ha come limite estremo un titanico muro di amplificatori, per inerpicarvi su montagne innevate fino ad issarvi sulle arcate sconnesse di una cattedrale gotica che ne costituiscono l'ossatura o per infilarvi in un sottobosco dove i funghi sono i piatti metallici di una batteria.
E queste non sono auliche figure che mi sono inventato per tirarmela da poeta: è l'esatta descrizione del paesaggio in cui vi troverete a vagare, gigantesco monolite a forma di Stratocaster più o meno.
Sì, il mondo di Brütal Legend è più grande dei vostri occhi perché è fatto di musica e perché messo in piedi con una generosità che ha davvero pochi esempi del genere nel panorama videoludico attuale.
È talmente oversized che vi servirà il cuore per abbracciarlo tutto. E una buona dose di amore per quella musica ignorante che, come dice Elio, ci piace tanto tanto.
Decapitatiooooon!
Cioè, non sono roadie veri e propri, ma roadie nello spirito.
Il roadie è quel personaggio unico che, in un concerto rock, si assicura che tutto funzioni: veste di nero per confondersi con lo sfondo del palcoscenico, si muove veloce e, se entra in scena per sistemare una spina o sostituire un microfono, non fai in tempo a notarlo ed è già scomparso.
I roadie non lavorano per la fama ma soltanto perché lo spettacolo funzioni, la sua star brilli e il pubblico si diverta.
Senza di loro l'universo semplicemente crollerebbe. Loro lo tengono in piedi e, se serve, lo sistemano con nastro adesivo e fil di ferro. E, quando il loro lavoro lo fanno bene, il segno è che non ti accorgi che ci sono.
Il roadie è per sua intima natura una persona che non può fare a meno di essere generosa.
Tim Schafer è esattamente un roadie.
Appartiene a quella schiera di game designer che, negli anni '90, hanno fatto grande il nome degli adventure game e, nello specifico, quello della Lucasarts (appunto, la stella ingrata sul palcoscenico).
Il suo nome ce lo ricordiamo in pochi e quasi tutti geek (qualcuno pure lettore di Rogue Leaders), ma tutti avremo per sempre nel cuore sia il Manny Calavera di Grim Fandango che il Ben di Full Throttle per come Schafer li ha scritti, disegnati e diretti.
Le avventure firmate da Tim Schafer le riconosci subito: hanno sempre delle grandi storie, ambientazioni che sono dei veri e propri mondi in cui immergersi, eroi riluttanti destinati loro malgrado a cambiare il mondo e, soprattutto, motori, grossi motori che rombano accompagnati da musica rock ad altissimo volume.
Oggi Tim Schafer è ritornato alla grande con un titolo (e una casa di produzione, la Double Fine) che, semplicemente, è stato quello che mi ha convinto all'acquisto di una PS3 (insieme all'aver finalmente metabolizzato il profondo senso di delusione per le promesse non mantenute della Wii): Brütal Legend.
E da oggi anche il roadie Eddie Riggs ha un posto speciale nel mio cuore.
Eddie Riggs e il protagonista del gioco ed è un roadie. In punto di morte – o forse come visione post mortem – si ritrova a vivere un'avventura in un mondo costruito sull'estetica Metal, un mondo che dovrà attraversare a piedi o a bordo di un bolide fiammante (e fiammaggiante), armato di un'ascia bipenne e una chitarra elettrica.
I cattivi sono metallari passati al lato oscuro della musica rock (il glam), tristi maschere dalla chiara origine goth o addirittura bizzari mutanti in stile Marilyn Manson.
Gli amici (e alleati) di Eddie sono cotonatissime metal ladies, headbanger dal collo ipersviluppato e motoclisti truzzi in sella ai loro chopper.
Le guerre tra eserciti sono concerti a colpi di fan (aggiudicarsene le anime significa vincere) e Eddie non è l'eroe della storia (almeno non subito): Eddie è un roadie e quindi l'eroe (alto, biondo e bello) lui lo aiuta.
Ma poi le cose si fanno ingarbugliate e si comincia ad intuire che tutta la storia è iniziata mooooolto tempo prima, in un epoca in cui le leggende solcavano la terra.
Ora, la vita è breve e io tendo a dilungarmi in quello che scrivo, perciò sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio e spariamo subito alto: mi interessa poco parlare del gameplay o dei FPS di Brütal Legend, di dissertare se i momenti free roaming del gioco funzionano meglio delle sezioni strategiche.
Quello che è importante è che Brütal Legend aspira tranquillamente a rappresentare per il Metal quello che Blues Brothers ha rappresentato per la musica soul.
Altri tempi, altri media ma entrambi capolavori (per Brütal Legend basta vedere l'interfaccia a 33 giri con cui si apre il gioco: semplicemente geniale).
L'approccio di entrambe le opera alla musica attorno a cui sono costruite è infatti divertito, divertente ma sempre e comunque reverenziale.
In Blues Brothers John Landis può permettersi di chiedere a una dea del soul come Aretha Franklin di interpretare la moglie in ciabatte e grembiule da cameriera perché lui non è lì per sfanculare nessuno, ma solo in quanto devoto a quella musica –che non vuole che venga dimenticata– e agli artisti che l'hanno resa grande.
Stessa cosa per Tim Schafer che affida a Ozzy Osbourne il ruolo del Guardiano del Metal e a Lemmy Kilmister dei Motorhead quello del pavido aiutante del protagonista).
La colonne sonore di entrambe le opere sono supreme (quella di Brütal Legend la trovate QUI e, come immaginerete se siete lettori affezionati di questo blog, per me l'unico neo è che tra gli artisti coinvolti non ci siano i miei amati Wolfmother).
Jack Black nei panni di Eddie Riggs è totalmente in parte. Talmente in parte che la parte cessa presto di esistere e Riggs e Black diventano prefettamente interscambiabili. Esattamente come succedeva a Belushi&Aycroyd nei panni dei fratelli Blues.
Se vi siete per caso imbattuti in quel gioiellino che è Tenacious D e il Destino del Rock (altrimenti cercatevelo: è molto più divertente ed onesto del massificato School of Rock) avete ben chiaro quello di cui sto parlando. Black ama la musica Metal, venera i suoi artisti ed è davvero l'attore perfetto per dare il volto, la voce e le movenze al personaggio digitale di Eddie Riggs.
La fisicità di Jack Black è infatti unica: tutti i personaggi che interpreta sono eroici senza essere seri e buffi senza essere comici, adulti e bambini insieme. Un attimo ruggiscono di energia e quello dopo sono in preda agli abissi della malinconia. Sembrano dei cartoni animati e, con un gesto, immaginano una nuova vita per il mondo che li circonda.
Resta solo da dire che, a gioco terminato (col cattivo sconfitto in un bagno di sangue cantando a squarciagola "Decapitatiooooon!": vorrei davvero conoscerlo il fesso che gioca Brütal Legend con attivata l'opzione "no gore, please") vi ritroverete a girare ancora per delle ore attraverso il mondo di gioco; un po' per completare le numerose missioni secondarie che sicuramente vi sarete lasciati alle spalle ma un po' – no, anzi: soprattutto – per ammirare la notte che insegue il giorno in un cielo dove i lampi all'orizzonte hanno il suono delle chitarre elettriche e i tuoni quello della batteria. Lo farete per giungere sulla riva di un mare che ha come limite estremo un titanico muro di amplificatori, per inerpicarvi su montagne innevate fino ad issarvi sulle arcate sconnesse di una cattedrale gotica che ne costituiscono l'ossatura o per infilarvi in un sottobosco dove i funghi sono i piatti metallici di una batteria.
E queste non sono auliche figure che mi sono inventato per tirarmela da poeta: è l'esatta descrizione del paesaggio in cui vi troverete a vagare, gigantesco monolite a forma di Stratocaster più o meno.
Sì, il mondo di Brütal Legend è più grande dei vostri occhi perché è fatto di musica e perché messo in piedi con una generosità che ha davvero pochi esempi del genere nel panorama videoludico attuale.
È talmente oversized che vi servirà il cuore per abbracciarlo tutto. E una buona dose di amore per quella musica ignorante che, come dice Elio, ci piace tanto tanto.
Decapitatiooooon!
martedì 1 dicembre 2009
Baglioni una volta era un concreto.

(Chiedo preventivamente scusa alla scena musicale indie per l'ammissione di colpa che leggerete fra breve)
Così, pensieri inutili che mi girano per la testa in questi giorni. Perché tenerseli per sé quando uno ha un blog?
Vabbè, lo dico? Lo dico: è tutta colpa di Carmine. Cioè, in parte è colpa di Carmine però quella parte è la parte più grossa.
Ok, lo confesso come è giusto che si faccia in queste occasioni: anni fa ascoltavo Baglioni.
Cioè, ho ascoltato "La vita è adesso", ho approfondito "Alè-oo" perché stavo dietro a una che è meglio lasciare stare (e che, per la cronaca, non me l'ha fatta vedere nemmeno da lontano), poi sono andato a un concerto dove sul palco c'era solo lui col pianoforte ("Assolo", appunto) e poi il mio amico Daniele, da vero amico, mi ha regalato per un compleanno "Oltre" (ok, l'avevo chiesto io, ma lui, quando mi ha dato il disco, sopra ci ha attaccato un'etichetta degna del suo genio: "Attenzione, l'Associazione Critici Musicali avverte gli acquirenti che il presente disco è considerato PRESUNTUOSO". Genio puro.)
Però poi avevo smesso. Io per la mia strada e Baglioni a strafarsi di botox.
Ma dopo qualche anno arriva Carmine con "Oudeis".
Bene, se vuoi capire di che cazzo parla "Oudeis" devi conoscere l'Odissea e comunicare con Carmine. Ma, se vuoi comunicare con Carmine (e capire un po' meglio "Oudeis"), devi conoscere Baglioni.
È inutile protestare. Se io non avessi conosciuto Baglioni, col cavolo che usciva fuori la copertina del primo libro di "Oudeis" (che, per i non baglioniani in ascolto, è una palese citazione della copertina di "Oltre").
Ma perché Baglioni? Perché buona parte delle suggestioni che qua e là fanno capolino nelle vicende del tecno Odisseo dalla memoria in pappa raccontato a fumetti da Carmine, accennano a quel capolavoro di macchinosità e cervelloticità (oppure monumento all'insicurezza) che è la "trilogia dei colori".
E quindi, negli anni in cui ho lavorato con Carmine su "Oudeis", mi sono ascoltato e riascoltato quei tre album ("Oltre", "Io sono qui" e "Viaggiatore sulla coda del tempo") e, c'è poco da fare, a me le cose imperfette attraggono da morire.
Sì perché tra il 1990 e il 1999 Baglioni spara alto e tira fuori una roba che fa dell'imperfetto la sua cifra stilistica: si destreggia tra fantascienza, flusso di coscienza spinto, strutture musicali sempre più contorte e arzigogolate (da eterno insicuro, l'ho già detto), canzoni dalla struttura continuamente germinante in cui più volte viene rimessa in discussione la struttura rassicurante del ritornello (che prima scompare, ma poi riappare completamente reinventata).
Il tutto dentro dei concept album (quanto meno retrò come scelta) abitati da personaggi che si guardano attraverso il tempo e dialogano allegramente di qualcosa che ha sempre a che fare con donne che se ne vanno dolorosamente e infanzia che sta sempre lì a voler aggiungere qualcos'altro.
Ora, quei tre album lì, si è capito fin da subito che dentro il panorama della musica leggera ci stavano malissimo. E non perché non avessero una vocazione popolare (i temi presenti e il modo in cui vengono trattati non vanno oltre il popolare), quanto perché la loro struttura musicale, pur rifacendosi a quella popolare, si orienta in modo differente: guarda più l'architettura dell'opera lirica che non il brano pop da 3 minuti.
Ci sono dentro dei brani scritti in quel modo solo per dimostrare (e di nuovo l'insicurezza) che Baglioni riesce a tenere una nota per un sacco di tempo e con un'estensione vocale assolutamente invidiabile. Cioè virtuosismi che la voce di Baglioni si può permettere.
Fateci caso: in tutti quei programmi tipo X-Factor è rarissimo che qualcuno si cimenti con le canzoni del Baglioni anni '90 proprio perché presuppongono una struttura della voce molto particolare (e, in parallelo, sono brani complicati da suonare perché scritti in maniera poco lineare).
Se un giorno Baglioni prendesse la "trilogia dei colori" e, dopo aver acconsentito a lavorare con qualcuno che gli aiutasse a limare gli eccessi di ego (ecco, diciamo che Tognetti non mi sembra proprio la persona giusta per fare questo: Tognetti sta a Baglioni come Rick McCallum sta a George Lucas. Qualche colpa dovrà pure avercela pure lui, no?), ne facesse un'opera lirica, a parte che sarebbe un'opera lirica su lui stesso (quindi interessante… così così), probabilmente tutti quegli schemi e controschemi che ci ha voluto ficcare dentro assumerebbero la loro più giusta connotazione.
Detto questo, però, c'è da dire che proprio in quegli album lì si fa sempre meno sopportabile la tendenza di Baglioni a prendere una parola e giocarsela per tutta la canzone all'ultima assonanza: "sono solo sotto il sol e so solo un solo in Sol" e "e nello sconcerto cominciai il concerto e incerto" sono solo due tra gli infiniti esempi che potrei citare di questo modo tutto baglioniano di prendere la lingua italiana e farsene masturbazione (con la scusa del linguaggio evocativo). E il tutto accompagnato dalla continua domanda: "Claudio, ma di che cazzo stai parlando esattamente?"
Eppure, se uno va indietro con la memoria, ti ritrova un Baglioni che, da giovane, era tutto meno che evocativo. Cioè, Baglioni da giovane, nelle sue canzoni, era proprio concreto: c'è questa storia di una che ha messo le corna al marito e adesso non sa come risolvere la cosa (Signora Lia). O la storia di quest'altro che torna dal militare e, mentre gira per il mercato, vede la morosa che mette la lingua in bocca a uno che non è lui (Porta Portese). O la storia di questa figlia di contadini che scopre che là sotto qualcosa comincia a muoversi e il padre pensa che sia un po' zoccola (ragazza di campagna). Oppure la storia di una turista inglese che arriva ad un soffio dal farsi stuprare da un italiano che le ha dato un passaggio (W l'Inghilterra).
Storie con un inizio e una fine.
Ecco, tra le tante cose, mi domando come da quella concretezza là si sia arrivati a "al crocevia di una via crucis, via la croce e così sia".
Boh? Non lo so. Credo che la risposta sia nascosta tra le pieghe della famigerata maglietta fina o in quello che trasudava nel '51 dal muro del subaffitto di Montesacro.
Fatto sta che io non la conosco ma, comunque sia, è colpa di Carmine.
venerdì 24 luglio 2009
Coup de théâtre!

E a questo punto, il coup de théâtre.
Ettore Gabrielli de Lo Spazio Bianco (ricordate? Avevo citato il suo sito un paio di post fa parlando di chi si occupa di informazione a fumetti in Italia) ha un momento di ritrovato orgoglio e, sul forum di Comicus, scrive:
"Se qualcuno ha il contatto di Rivi sarei felice di fargli qualche domanda. Non apprezzo i modi di Ciccarelli troppo spesso oltre il filo della provocazione, però è anche vero che questo genere di argomenti DEVONO interessare un sito di informazione. Che poi non ci sia tempo e modo di verificare, lo capisco invece molto bene, ma si tratta di due cose differenti."
Colpo al cerchio e colpo alla botte a parte, è encomiabile che almeno lui abbia mosso il culo, anche se qualcuno gli fa giustamente notare che, visto che sono 10 anni che riceve le news da Panini, non dovrebbe essere così difficile per lui trovarlo quell'indirizzo.
Trascorrono allora un altro paio di pagine di amabile conversare sul "è giusto o no fare queste domande –ma certamente non in quel modo provocatorio lì– e, in fondo, chi siamo noi che compriamo solo i loro albi per sapere gli affaracci della Panini?" che Gabrielli ricompare sulle pagine del forum e posta queste due righe laconiche:
"Sono riuscito a contattare Andrea Rivi. Mi ha detto testualmente di essere tuttora – e peraltro orgogliosamente – un dipendente Panini."
E da lì chi li trattiene più moderatori, ex-moderatori (lasciatemelo dire: i peggiori), lavoranti, wanna-be, affiliati, consociati e via dicendo a dare addosso al cretino (il sottoscritto) che avrebbe fatto su un casino per niente, che si sarebbe inventato tutto solo perché è astioso verso Rivi e la Panini e che, in ultima analisi, è stato un bene che sia stato bannato?
Nessuno!
E infatti nessuno lo fa, lasciando totale libertà alla suburra che, infatti, si sfoga dando il peggio di sè.
E così a pagina 12, dopo un paio di pagine di frizzi e lazzi (ma anche, va detto, dopo oltre 4000 visite al topic nell'arco di due giorni: e per fortuna che non interessava a nessuno), i moderatori chiudono il topic perché, è evidente dalle ultime due pagine di frizzi e lazzi, non c'è più niente da dire e, vista che la verità è stata finalmente svelata dalla telefonata di Gabrielli, in realtà non c'era niente da dire nemmeno prima.
Pausa.
Ettore (parlo con te giusto perché, nel mucchio, mi sei venuto in mente tu): io non so quale domanda tu abbia fatto tu a Rivi, se gliel'abbia fatta al telefono, di persona o via mail ma, benedetto ragazzo, secondo te, se gli hai domandato "ma è vero che non lavori più per Panini?" cosa volevi che ti rispondesse?
Ovvio che, oggi, Rivi sta ancora lavorando per Panini e, altrettanto ovvio, che ti debba dare quella risposta che ti ha dato.
Che mica è come nei film americani che, licenziamento o dimissioni che siano, prendi lo scatolone e ci metti dentro la tazza del caffè e la foto di Faraci & Schiavone che tenevi sulla scrivania e poi te ne vai lasciandoti tutti alle spalle che ti guardando in silenzio mentre cammini lungo il corridoio dell'ufficio.
Se ti licenziano o ti dimetti (è lo stesso), quando lavori per Aziende di questo tipo con quel tipo di incarico, per almeno un paio di mesi te ne stai lì dove sei a finire i compiti e, se ti dicono che nel frattempo devi sorridere e dire che il rospo che stai ingoiando è buono, ne chiedi pure un'altra razione. Perché sei un professionista e, se non fai così, sei fuori da lì e da ogni possibile altro incarico in altre Aziende dello stesso tipo.
Se ti licenziano o ti dimetti (è lo stesso), quando lavori per Aziende di questo tipo con quel tipo di incarico, per almeno un paio di mesi te ne stai lì dove sei a finire i compiti e, se ti dicono che nel frattempo devi sorridere e dire che il rospo che stai ingoiando è buono, ne chiedi pure un'altra razione. Perché sei un professionista e, se non fai così, sei fuori da lì e da ogni possibile altro incarico in altre Aziende dello stesso tipo.
E qui ci metto pure il carico: soprattutto lo fai quando la tua ex Azienda, quella che hai venduto per andare a lavorare in Panini, è ormai legata a filo doppio con quello che Panini (il suo distributore esclusivo e forse anche qualcosa in più) deciderà per il suo futuro.
E, in quel caso, anche per controllare quello che potrebbe succedere ai tuoi amici, al tuo posto ci rimani sorridente fino all'ultimo giorno di lavoro utile che non si sa mai che cosa può succedere.
E non credo di dovertele spiegare io tutte queste cose.
Però a questo punto non capisco una cosa.
Forse tutta questa questione di Rivi licenziato/dimissionario era una voce senza fondamento.
Forse lo era.
Ma forse non lo era.
Ma, se non lo era, che senso ha dichiarare "sto ancora lavorando per Panini ed è tutto ok" nel caso in cui, fra 3 mesi, venisse fuori che non ci lavori più (a parte i motivi di cui sopra, ovvio)?
Certo, potresti contare sul fatto che la gente, a livello di memoria storica, sta messa peggio del protagonista di Memento e che quindi, fra 3 mesi, chi si ricorderà più di quello che hai dichiarato?
O forse potresti dire "ora non ci lavoro più ma allora ci lavoravo, quindi avevo ragione io a dire che Ciccarelli è un visionario" ma, davvero, a cosa servirebbe?
Ma, questo, appunto, per citare il poeta, lo scopriremo solo vivendo e quindi facciamo passare un po' di tempo e vediamo se era tutta una chiacchiera oppure no.
La grande lezione, invece, per me, è stato vedere come, in questa storia, questa bella gente del piccolo modo del fumetto italiano si sia mossa tutta compatta (che allora non è vero che sono incapaci di attivarsi per mettere in piedi un qualsiasi progetto), come si siano davvero prodigati in molti perché chi stava creando una situazione imbarazzante per le loro carriere con delle SEMPLICI DOMANDE fosse fuori campo nel momento in cui, chi aveva interessi a farlo, si preparava ad archiviare tutto in quattro mosse (chiedo a Rivi, ho chiesto, ha chiesto quindi è vero, ergo Ciccarelli è un pirla) e, per concludere degnamente, a rovesciarmi sulla testa un bel secchiello di merda sapendo che lì sul forum dove questo stava andando in scena, grazie al ban, non mi sarei potuto difendere.
Cioè, non ce n'è stato nemmeno uno che ha alzato la mano per dire "ma senti Ettore, tu che ci hai parlato –ma ci hai parlato?– , cosa gli hai chiesto esattamente? E lui cosa ti ha risposto esattamente? Insomma, ok queste due righe che hai postato e poi sei sparito, ma ci potresti dire qualcosa di più di quello che vi siete detti in merito a questa cosa?".
Non ce ne è stato uno che si sia fatto venire qualche dubbio (magari, conoscendo Gabrielli, non è così, ma se Gabrielli si fosse inventato lui questa comunicazione con Rivi?), nessuno che abbia espresso qualche perplessità in merito a quello che era successo in questi giorni.
Tutti intenti e concentratissimi a chiudere il topic ed archiviare la pratica nel più comodo dei modi possibili.
Ho una lista tutta mia di imbecilli che ho voglia di incontrare un giorno per dirgli "Buongiorno! Sei un imbecille.". E vi assicuro che in questi giorni, con questa faccenda, quella lista si sta allungando in maniera spropositata e sta includendo persone che, davvero, non mi sarei mai aspettato di metterci dentro.
"Sono un visionario, vedo quello che non c'è. Sogno una macchina che riavvolge il tempo"
(Ivano Fossati)
Update.

Eravamo rimasti alle mie 10 domande a Rivi e al conseguente ban nei confronti chi si era macchiato dell'onta di porre delle domande (il sottoscritto, no?).
Come si è evoluta la situazione?
Ovviamente con moderatori e redazione di Comicus che, su mia richiesta di chiarimenti, mi inviano mail per spiegare che nessuno vuole censurare nessun altro (figuriamoci!) ma che il sottoscritto è stato bannato semplicemente perché fa casino e non rispetta le regole (nello specifico, quella di non rispondere a un moderatore quando ti riprende. Attenzione, non di non insultare – che mi sono ben guardato di fare anche se sanno solo dio con la minuscola e Tito Faraci se ce n'erano i motivi – ma semplicemente di rispondere. Se avete voglia e siete iscritti al forum di Comicus, qui c'è l'intervento che, a sentir loro, mi sarebbe costato il ban. Giudicate voi.) e che Comicus non parla di Rivi e delle sue dimissioni/licenziamento solo perché è un argomento che non interessa a nessuno e perché sono (secondo le parole del direttore di Comicus Gennaro Costanzo che si è scomodato a mandarmi un paio di mail ieri) "cose tecniche riguardanti le risorse umane di un Azienda e non un sito di fumetti" o, in alternativa, "solo pettegolezzi da trasmissione tv tipo uomini e donne".
Ma nel frattempo il dibattito va avanti sul forum concentrandosi più o meno su questi temi: "forse le domande sono giuste o forse no, però quello che è chiaro è che i modi di Garamond sono provocatori e, in ultima analisi, se Rivi è stato licenziato o si è dimesso sono solo affari suoi e volerli sapere è solo la solita espressione dell'italica caratteristica di farsi gli affari altrui".
Interviene anche l'illuminato e già citato Costanzo per sottolineare che, in fondo, il suo sito è un sito libero e che, quindi, in quanto tale non può (e non vuole) fare quelle domande a Rivi perché non accetta le imposizioni di chi (il sottoscritto) per motivi suoi personali gli dice che cosa fare e che, soprattutto, dichiara di non avere ottimi rapporti con Rivi e la Panini da sempre.
Cioè, tradotto: "non ne parliamo perché l'argomento Rivi non interessa a nessuno e perché, in fondo, tu che mi fai notare che forse sarebbe giusto parlarne sei di parte e forse anche un po' comunista e quindi contrario all'idea di libertà che Comicus promuove".
Ora, la mia poca simpatia per Andrea Rivi e la Panini, come ho già detto, non l'ho mai nascosta e, comunque sia, credo che c'entri poco sulla questione che come lettore e utente di Comicus ho posto: perché Comicus non si occupa di questo argomento? Una semplice domanda senza nessuna imposizione, a me pare.
Se Rivi è stato licenziato o si è dimesso sono cose che riguardano solo lui e i suoi rapporti con l'Azienda e non un sito che si occupa di fare informazioni sul mercato del fumetto e sui suoi protagonisti: certo, se si è dimesso perché non gradisce la nuova mensa aziendale, quelli sono ovviamente affari suoi.
Ma se Rivi si è dimesso perché non in accordo con –che so?- una politica editoriale della Sua Azienda che privilegia nuovi partner (tipo Giochi Preziosi, tanto per citarne uno) rispetto a vecchi partner (BD, tanto per citarne un altro), allora credo che la questione possa essere interessante anche per i lettori.
Come potrebbe essere interessante per i lettori sapere se Rivi è stato licenziato nel caso in cui -che so?- fosse stato licenziato perché ritenuto responsabile di qualcosa che ha danneggiato l'Azienda Panini.
Cioè tradotto, a livello di informazione giornalistica, licenziato o dimissionario interessa poco se, subito dopo, non ci aggiungi il perché.
E ci tengo a sottolinearlo: queste sono solo mie ipotesi, puri e semplici esempi per far capire che chi dice "licenziamento o dimissioni sono affari suoi" non ha capito cosa significhi fare informazione (ma non è vero: gli fa comodo far finta di non capirlo).
E, in ultimo, mancanza di interesse sull'argomento: il numero di visitatori del topic (e le telefonate e le mail che ho ricevuto in questi giorni in merito a tutta la questione) a me fanno pensare l'esatto contrario.
Questo avveniva ieri, più o meno quando il topic in questione era stato visitato sulle 3000 volte e quando, stando fermi a guardare chi passava, si era potuto notare che più o meno tutti gli addetti ai lavori (e qualche affiliato) erano passati per dare un'occhiata a come procedeva la discussione.
(continua con un… coup de théâtre!)
mercoledì 22 luglio 2009
Il sistema dell'informazione, formato bonsai (terza e ultima parte).

E finisce col botto.
Dove eravamo rimasti? Ah sì.
"Come mai Comicus, che è un sito di informazione, su Andrea Rivi e le voci del suo licenziamento/dimissioni non informa?"
BUUUUUU!!!!!
"Come mai Comicus non fa semplicemente le domande che, se poste, porrebbero fine a tutte le voci?"
BUUUUUU!!!!!
"Come mai, qualsiasi cosa io dica su quest'argomento, oggi mi becco su dei BUUUUUU!!!!!?"
BUUUUUU!!!!!
(appunto…)
Ora, chiariamoci, io non sono Giuseppe D'avanzo, Rivi non è Berlusconi e Comicus non è certamente Repubblica (e nemmeno Il Giornale), però una questione del genere si risolve molto semplicemente: ponendo di persona, sul forum di Comicus, le domande che chi si dovrebbe occupare d'informazione in quello spazio non ha voluto fare.
E le domande per risolvere tutta la questione, come va oggi di moda, sono 10 e sono le seguenti:
1. Nell'ultimo mese è circolata la voce tra gli addetti ai lavori che non sia più Lei, Andrea Rivi, a ricoprire il ruolo di Publishing Manager di Panini Comics.
Lei conferma o smentisce questa che, non essendoci state ancora comunicazioni ufficiali in merito da parte di Panini Comics, al momento è ancora solo una voce?
Nel caso in cui confermi:
2. ci può dire se si è trattato di sue dimissioni o di licenziamento da parte dell' editore Panini?
3. Se si è trattato di sue dimissioni, ci può dire quali sono stati i motivi che l'hanno portata a rassegnare le dimissioni? E, in caso di licenziamento, l'hanno informata dei motivi che hanno portato al suo licenziamento da parte dell'editore?
4. ritiene che la fine del suo incarico di Publishing Manager per Panini Comics abbia in qualche modo a che fare con la sua proprietà fino al 2005 della casa editrice BD?
5. conosce già il nome di chi verrà chiamato ora a ricoprire il ruolo di Publishing Manager da Lei occupato dal 2005?
6. In cosa consiste esattamente il ruolo di Publishing Manager di Panini Comics e in che cosa si differenzia da quello di Direttore Editoriale ricoperto da Marco Marcello Lupoi?
7. Quale peso ha il Publishing Manager all'interno di Panini Comics nel decidere che cosa viene pubblicato dalla casa editrice?
8. dopo quanto avvenuto, continuerà a mantenere rapporti di lavoro con Panini Comics oppure inizierà a lavorare per altre strutture editoriali concorrenti alla casa editrice di Modena?
9. Ritiene opportuno che siti di informazione come Comicus si occupino anche di questi aspetti dell'industria edtoriale italiana, ponendo le domande ai diretti interessati come sto facendo in questo momento con Lei?
10. Ritiene che porre le domande ai diretti interessati sia un modo efficace per evitare che false voci si diffondano inutilmente?
Volete sapere come è finita questa storia?
Ho postato sul forum di Comicus le mie dieci domande ad Andrea Rivi, Rivi non ha risposto (ma certamente ha saputo, visto l'alto numero di suoi "collaboratori" che hanno fatto capolino sul forum seguendo l'evolversi del topic. E forse anche letto a dar retta ad alcuni) e i moderatori di Comicus, ovviamente… mi hanno bannato.
Ovvero, come si diceva all'inizio, quando si tratta del peggio, nel piccolo è esattamente come nel grande: le domande, se non sono state fatte, c'è un perché e, se te le vuoi fare, te le puoi fare solo a casa tua senza rompere le balle allo status quo, grande o piccolo che esso sia.
Semplice, chiaro e lineare.
Il sistema dell'informazione, formato bonsai (seconda parte).

E vi anticipo subito che ce ne sarà una terza.
Insomma, che nessuno parlasse di questa voce riguardante Andrea Rivi (voci che telefonate e mail mi confermavano già abbastanza diffusa da tempo) mi sembrava molto strano.
Tanto che a un certo punto mi viene il dubbio: e se la voce non fosse vera? E se si trattasse di una delle tante bufale del piccolo mondo (antico) del fumetto italiano?
E così che faccio?
Mi collego al forum di Comicus e l'argomento lo introduco io sotto il titolo "Bye bye Rivi?": "ragazzi, c'è questa voce riguardante la poltrona di Andrea Rivi in Panini che a me risulta che giri da un po' di tempo. Come mai nessuno ne parla? È vera? È falsa? Qualcuno ne sa qualcosa in più?"
Semplice, chiaro e lineare.
E qui la prima sorpresa.
Per prima cosa noto che attorno al topic crescono il numero dei visitatori ma resta fermo quello dei post. Cioè, segno che le persone leggono ma quasi nessuno scrive.
Poi, pian piano, cominciano a fare capolino quelli che io chiamo gli annacquatori, cioè quelle persone che, dato un argomento, intervengono rispondendo con una battuta demenziale, con due righe fuori argomento (OT, in gergo), rendendo quindi molto difficile seguire il filo del discorso. Appunto, annacquando.
Perché lo fanno? A volte perché sono persone che amano cazzeggiare, altre perché così ogni eventuale dibattito potenzialmente esplosivo (flame, in gergo) si spegne in questo mare di altro.
Cioè, è una strategia a monte di chi modera un forum per contenere il numero di zuffe quotidiane.
Ma io, purtroppo, sono uno che non molla e così continuo a tenere vivo l'argomento.
"Ok, per ora è solo una voce, ma a nessuno sembra strano che qui, dove tutto si commenta spesso molto prima che accada, questa voce riguardante Rivi e il suo incarico in Panini sia assolutamente assente?"
E qui la seconda mandata.
Prima quelli che dicono: "smettila di rompere! Sei patetico! Che tanto lo sappiamo che di tutta questa storia ne stai parlando solo perché ce l'hai su con la Panini e con Rivi". Che è anche vero. Non solo, ma anche vero.
Poi altri: "fallo per te e per noi che ti siamo amici, smettila che, come ti hanno già detto, ti stai rendendo patetico". (Gli amici…)
Poi i moderatori: "non mi interessa se qualcuno ti ha dato del patetico, state tutti zitti (tu per primo) altrimenti scatta il ban".
E vabbè…
E infine la terza mandata: "Ma non vedi che questo argomento non interessa a nessuno?"
E qui mi viene il dubbio: ma se non interessa a nessuno, come mai il numero di lettori del topic con il passare delle ore continua a crescere?
Allora, evitando di mandare affanculo quello piuttosto che quell'altro (che tanto ormai lo so che poi finisco bannato solo io) faccio una sola e semplice domanda: "premessa che questa di Rivi è al momento ancora solo una voce, un sito di informazione come Comicus che si vanta di essere un ottimo sito d'informazione e che fa da sempre dell'imparzialità la sua bandiera, non farebbe prima a smontare tutta la baracca delle voci che stanno girando, ponendo un paio di semplici domande al diretto interessato e alla sua Azienda? Chi si occupa di informazione come Comicus dice di fare, non dovrebbe fare questo?".
Semplice, chiaro e lineare.
E qui fanno capolino gli impiegati e i wanna-be, quelli che nell'ambiente del fumetto ci lavorano e quelli che ci vorrebbero lavorare, quelli per cui "se dico questo magari chi decide mi nota" e quelli che "se dico questo, allora domani potrò andare da chi decide e dirgli: io sono dalla tua parte contro i felloni e gli infigardi che vogliono solo il tuo male".
Il forum di Comicus ne è pieno. Se dai un calcio a una parete, o esce un grafico e un wanna-be.
E se ti va male male, esce Tito Faraci.
Il succo del discorso di costoro è quasi commovente da quanto è lineare: "forse quello che dici è vero o forse no, ma non importa perché tu lo dici in mala fede e non per amore della verità. E anche se fosse vero, perché lo vieni a dire qui? E anche se fosse vero, cosa vuoi che cambi se quel posto lo ricopre Rivi o Pincopallo, visto che tanto le decisioni –noi addetti ai lavori lo sappiamo– si prendono altrove e tutto è un grande meccanismo più grande e complesso che non è il caso di rendere pubblico alle orecchie dei comuni lettori qui sul forum? E anche se fosse vero, perché non spendi meglio il tuo tempo aggiornando il sito internet di saldaPress o facendo uscire il libro X che io e mio cugino di Ragusa lo stiamo aspettando da un sacco di tempo? E poi sei patetico!".
E chi se ne fotte? Io sto parlando di altro.
Come mai su tutto questo argomento (e solo su questo argomento) IL SITO DI INFORMAZIONE WWW.COMICUS.IT NON FA UNO STRACCIO DI INFORMAZIONE?
Che cazzo di sito d'informazione è un sito di informazione che non informa?
Che cazzo di persone sono quelle che parlano di tutto e di tutti basta che non si tratti delle beghe dei supposti potenti che danno loro lavoro o potrebbero dargliene?
Cazzo, è semplice, chiaro e lineare: si fanno le domande e, in attimo, finiscono tutte le voci.
(fine della seconda parte)
Il sistema dell'informazione, formato bonsai.

La più clamorosa lo scorso febbraio: reo di aver fatto notare in un mio post che la qualità del catalogo Mega (Alastor) la metteva allegramente in culo alla concorrente Anteprima (Pan Distribuzione), ero stato prontamente accompagnato dai moderatori alla porta del forum.
Lì, non datomi per vinto, avevo chiesto asilo sul suo blog al buon Andrea Voglino per rendere pubblico il mio ironico dissenso nei confronti del suddetto –e a mio parere ingiustificato– ban (e il buon Voglino che è un signore e ama l'ironia, l'asilo me l'aveva concesso volentieri).
Cioè, la più clamorosa espulsione fino ad oggi.
Che è successo stavolta?
Stavolta la questione è ancora più paradossale o, se volete, tragicomica e, in piccolo (cioè, nel formato bonsai del titolo) ci aiuta a capire che, nel sistema informativo, quando si parla di peggio, grande e piccolo sono esattamente la stessa cosa.
Andiamo con ordine.
Da un mesetto (ma qualcuno dice anche da di più), nel modo del fumetto nostrano gira una voce: il publishing manager di una grande casa editrice che pubblica fumetti (Panini Comics, ovvero, parlando di case editrici, la più grande tra le piccole e la più piccola tra le grandi) avrebbe chiesto le dimissioni del suo Publishing Manager Andrea Rivi.
O forse lo avrebbe licenziato.
O forse lo stesso Rivi se ne sarebbe andato piccato per qualcosa.
Non si sa esattamente perché, appunto, sono voci.
E fino a qui niente di strano: sono cose che succedono nel mondo dell'editoria, un direttore editoriale va e uno viene, le stagioni passano e i fumetti continuano allegramente a uscire nelle edicole, nelle fumetterie e, con molta confusione, anche nelle librerie di varia.
Ora, va premesso che dal punto di vista squisitamente personale, tra me e il concittadino Rivi (anche lui di Reggio Emilia) non è mai corso buon sangue e, per quello che mi riguarda, non mi sono mai preoccupato di nascondere ciò né a lui né al resto del popolo dei cosiddetti "addetti ai lavori" che mi conoscono e sanno bene che, quando parlo di peggio nell'editoria a fumetti, solitamente cito la Panini e, subito dopo, Andrea Rivi.
Il motivo?
Non scendendo nello specifico (il post si profila già abbastanza lungo), a grandi linee potremmo dire che mi è mai piaciuto chi non gioca pulito e Rivi, quando dirigeva Pan Distribuzioni (che, al tempo, distribuiva ancora i libri saldaPress) e nel frattempo faceva anche l'editore con BD (cioè un concorrente diretto per la nostra casa editrice) era l'incarnazione (a fumetti) del solito conflitto d'interessi di matrice italica su cui tutti alzano le spalle (e Rivi per primo visto che, di fronte alle mie osservazioni come editore, continuava a sostenere che questo conflitto d'interessi era solo nella mia testa).
Figurarsi poi quando è diventato publishing manager di Panini Comics…
Vabbè, le cose stavano così e, visto che stavano così, che ci fosse una voce riguardante il fatto che la Panini lo avesse (forse) trombato era qualcosa che mi incuriosiva: "che sarà mai successo di così grave e irreparabile da trasformare gli amiconi modenesi in feroci trombatori del povero Rivi?" mi chiedevo.
E mentre mi chiedevo questo, il tempo passava e, mentre il tempo passava, notavo qualcosa di strano: ovvero che nessuno dei cosiddetti organi di informazione che on-line si occupano dell'industria italiana del fumetto faceva nemmeno un minimo riferimento alla cosa.
Ok, tra questi organi d'informazione on-line proviamo a fare un elenco di quelli che mi vengono in mente tra i più famosi e frequentati (e che più o meno frequento anch'io):
- Comicus (e relativo forum di discussione)
- Mangaforever (e relativo forum di discussione)
- Lo spazio bianco
- Il forum dell'A.F.U.I. (l'Associazione Italiana delle Fumetterie)
- AFNews
- il forum di discussione it.arti.fumetti
(all'elenco andrebbero poi aggiunti un paio di blog di addetti ai lavori solitamente un passo sempre avanti a tutti su tali argomenti, ma, ai fini del discorso, limitiamoci ai siti e ai forum)
Bene, in nessuno di questi "posti" nemmeno una parola sull'argomento Rivi.
Eppure, se ne prendiamo uno a caso di quelli sopra (il forum di Comicus), si può tranquillamente dire che, tra addetti ai lavori e non che quel forum lo frequentano assiduamente da anni (me compreso), è praticamente all'ordine del giorno creare discussioni attorno a voci (rumors, sempre nel gergo) e commentare fino al parossisimo anche il numero di peli presenti sul sedere di qualcuno che va ad occupare una qualsiasi potrona (in Italia e oltreoceano).
Di più: alle voci spesso seguono articoli e interviste ai diretti interessati i quali, solitamente, confermano tali voci oppure le ridimensionano (smentiscono, raramente).
Ancora di più: la nuova tendenza è dare voce su alcuni di questi siti ai diretti interessati che, dai loro spazi dedicati (column, ancora nel gergo), anticipano le linee guida delle loro personali linee editoriali.
Insomma, tradotto: di tutto quello che nel mondo del fumetto accade o sta per accadere nei forum dedicati se ne parla eccome.
Di tutto tranne che delle dimissioni/licenziamento di Rivi evidentemente.
(fine prima parte)
lunedì 20 luglio 2009
Picinic! memories.

(Stesso discorso del post precedente…)
Siccome questo è un blog personale dove parlo degli affari miei, cosa di meglio che ricordare a ruota libera quello che mi è rimasto in mente del Picnic! festival 2009?
E allora ecco la Bibliocar degli Spavaldi dove, tra gli altri, sono saliti Massimo Bonfatti a raccontare come una sceneggiatura non girata di Mario Monicelli sia diventato il suo fumetto Capelli Lunghi (per me, il fumetto più bello letto quest'anno), Andrea Plazzi a spiegare al pubblico perché Stefano Raffaele per fortuna non è normale (e a presentare quindi Fragile), Luigi Bernardi che, sotto promessa di gnocco fritto (alias crescentina per i felsinei), ha letto in anteprima per il pubblico del Picnic! la sua introduzione al sesto volume di The Walking Dead.
(e, per tutti coloro che sono saliti a parlare sull'ameno veicolo spavaldiano, quest'anno, a differenza dell'anno scorso, abbiamo registrato tutti gli interventi e, quindi, sappiate che anche il resto del mondo ne potrà godere. A breve su www.picnicfestival.com)
Oppure l'arrivo alle 7 di mattina accolti dalla tragicomica notizia che non sono stati consegnati i gazebo da montare: e allora via a quello che, in omaggio a una scena memorabile del film di Kevin Reynolds del 1985, è stato subito battezzato Piano Fandango, con, tra gli altri, Claudio Sacchi di ComixComunity a dare manforte.
O anche lo striscione Picnic! montato con lo scotch e tanta voglia di stare insieme, che, dopo tutto lo sbattimento per stamparlo, se scopro chi è l'autore del gesto diciamo naif, con lo striscione ce lo incarto e lo butto nel Crostolo che così lo divorano le ponghe mannare.
E poi Marianna e Corrado che, come una squadra perfetta, hanno gestito alla grande le file per i disegni (ragazzi, fatevi assumere da un festival di fumetto qualunque che ne avete di cose da insegnargli su come si organizzano le dediche e i disegni degli autori), Massimo che non si è fermato un attimo per sbrigare tutta la burocrazia e molto di più (commento di uno degli ospiti: "mai avuto un rimborso spese così rapidamente") e Cristiana che cercava disperatamente di raggiungere quella sporca ultima meta dei 15 metri senza essere placcata.
E ancora la mamma di Marianna che arriva in soccorso con una caraffa di caffè, Stefano Raffaele in crisi d'astinenza da caffeina che cerca di intercettarla e viene invece coinvolto in una gag degli Spavaldi (scusa Stefano scusa scusa. Lo so che sei timidissimo ma… è stato troppo divertente. Anche se si vedeva che a Elena un po' le veniva da ridere e un po' pensava "oddio, non sanno che cosa stanno scatenando". Però scusa lo stesso).
E poi le spille fatte a mano da Fiorenza (ops, FluffyFlo) con una pazienza e una cura che indica chiaramente quanto lei abbia cuore questo festival e tutto quello che gli ruota attorno (spille bellissime e, infatti, andate letteralmente a ruba).
E poi Pia!, una vera star del fumetto: l'anno scorso era tra gli ospiti e non è venuto. Quest'anno non c'era ed è venuto. Però finalmente ci siamo conosciuti dopo lungo scambio e-pistolare (e ho scoperto che è anche amico del buon Enrico Fornaroli).
E poi Giuliano che disegna (e disegna da dio, che la gente lo guarda e dice: "è un autore?" No, è un ex-marò convertito al fumetto e al trasporto delle acque minerali. Cazzi vostri ora capire dove finisce uno e inizia l'altro). Solo che dio (o chi per lui) è fetente, e allora ti da i muscoli e poi te li impacchetta nella timidezza. Tè, divertiti.
E poi Andrea Voglino e signora, finalmente insieme per qualcosa che ha sì a che fare con il fumetto ma che grazie al cielo, si svolge all'aria aperta.
E poi Elia Cini che scopre quanto è divertente chiamarmi "Ciccarelli!" (che c'ha ragione lui, visto che di Andrea ormai ce n'è un'inflazione) e Simone che mi allunga sotto banco un ciauscolo fatto per l'occasione dal papà (dono graditissimo!)
Insomma, questi sono i miei parzialissimi ricordi della giornata.
Che volete? Sono i miei.
Anche perché poi, se uno che non è venuto vuole farsi un'idea meno parziale del festival, da un'occhiata alle foto che ci sono già in giro per la rete, no?
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