sabato 23 aprile 2011

Habemus Papam. 05

Più passa il tempo e più il cinema di Nanni Moretti diventa un cinema d'immagini.

Guardando Habemus Papam non è infatti difficile indovinare quali sono le immagini da cui il regista è partito per girare il suo film: il Papa e lo psicologo seduti uno di fronte all'altro circondati dai Cardinali (ovvero una delle messe in scena più efficaci della paradossalità insita in una qualunque seduta terapeutica) e il torneo di pallavolo tra i Cardinali.
Ma anche due scene dotate di un certo grado di perturbanza (nel senso freudiano del termine): i prelati che, dopo il grido angosciato del neo pontefice alla loro spalle, indietreggiano muti fino ad essere inghiottiti dal rettangolo nero della finestra e i cardinali in abito completo che irrompono nel buio del teatro, spalancando le tende dei palchi alla ricerca del Papa fuggito (messa in scena e uso dello zoom richiamano una scena analoga di Kubrick in Eyes Wide Shut, altra pellicola sull'entrata in crisi di un ruolo e sul successivo smarrimento dei personaggi).

Più il film di Moretti si mantiene aderente alla forza delle immagini (e quindi più si fida della potenza del cinema) più è possibile una narrazione che, dichiarata la sua matrice psicoanalitica (ossia più simbolica che metaforica), può indugiare con lo sguardo dalla parti del preconscio e delle sue rivelazioni (che era esattamente il nodo attorno al quale ruotava la novella di Schnitzler da cui Eyes Wide Shut è tratto).

La sfida di Moretti in Habemus Papam è proprio quella di riuscire a tenere per tutta la durata del film la narrazione esattamente a cavallo di quella zona di scambio tra conscio (realtà oggettiva/trama/naturalismo) e inconscio (dimensione onirica/immagine evocativa/metafisica). Il film si inceppa, infatti, quando cerca una funzionalità rappresentativa dei personaggi che non riesce ad ottenere (la psicanalista fissata con il deficit emotivo ma, in fondo, lo stesso psicanalista interpretato da Moretti che finisce per dare ragione a  Monicelli quando gli diceva "Moretti, scansati e fammi vedere il film").

Habemus Papam ruota attorno a tutte queste immagini e ad un discorso sul teatro (e sulla messa in scena) che rappresenta il fulcro di tutto il film: quando il Papa fugge dal terrazzo da cui non riesce ad affacciarsi e ritorna nella sala del conclave (accennando così ad una regressione del personaggio alle origini del trauma, cioè un volere tornare indietro a prima che tutto succedesse), il regista lo inquadra come se fosse su un palcoscenico, con la porta alle spalle e le tende ai suoi lati che ricordano un sipario aperto (ma sono tende disegnate sul muro, quindi una rappresentazione ideale di un palcoscenico).

L'origine del trauma di Melville (cioè dell'uomo e non del Papa, come indica anche lo psicologo Moretti in una battuta del film) ha forse origine lì, quando il suo ruolo è stato sostituito dalla sorella diventata al posto suo attrice. Ciò che ha logorato Melville è probabilmente questo slittamento di ruolo, l'avere per troppo tempo interpretato un ruolo parallelo al proprio (il costume è una parte fondamentale sia nel mestiere dell'attore sia in quello dell'alto prelato) ma che non era il proprio ruolo. Ed è quando questo ruolo esige un'evoluzione (da Cardinale a Papa), quando il personaggio si svela nella sua esigenza irrinunciabile di fare evolvere la trama (e quindi di sacrificare definitivamente la persona Melville al personaggio Papa), è lì che la persona, messa all'angolo dalla consapevolezza di avere costruito la propria vita su una finzione, entra in crisi e crolla.

Ed ecco quindi il senso di quell'immagine fortissima che Melville, bloccato sul limite della trasformazione in Papa, evoca: una specie di nebbia che cancella le persone, quello che hanno fatto e detto (e che la sceneggiatura sottolinea bene: non i Cardinali intorno al Papa ma le persone che nella vita Melville ha conosciuto).
Melville sta per scomparire e con lui cominciano a scomparire tutti i ricordi della sua vita.

D'altra parte anche il ruolo dell'attore impazzito è indicale di questa strada interpretativa: l'attore impazzito recita mettendo in evidenza le impalcature che sorreggono la propria interpretazione (dichiara al pubblico le indicazioni di regia) come a voler denunciare la finzione insita in qualsiasi messa in scena, sia essa quella di un attore che recita Checov o quella di una Chiesa che, pur brancolando nel buio come tutti noi, cerca disperatamente di convincere i fedeli che attraverso di essa passa un filo diretto con Dio.

E se la finzione cade, in scena non ci sono più i personaggi ma solo attori che interpretano il testo di un drammaturgo russo. E sul balcone di Piazza San Pietro non c'è più colui che Dio ha scelto come rappresentante della propria Chiesa ma solo un uomo che accetta sulle proprie spalle la disperazione di chi, amando il teatro, non può fare a meno di dichiarare: "Ma io sono soltanto un attore".

2 commenti:

  1. Ci ho pensato molto e sono arrivato alle tue stesse conclusioni (alla tua stessa analisi).
    Ma avrei bisogno di rivederlo,perché non sono del tutto convinto. Penso alla figura interpretata da Moretti, ad esmpio. Questo bisogni di dialettizzare (le partite), di classificare (le squadre fatte con persone provenienti dalla stessa area geografica).
    Comunque Moretti ha sempre lavorato di immagine, fin dagli esordi. Su questo discordo fa te.

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  2. Sì, credo tu abbia ragione. Il cinema di Moretti ha dato sempre grande rilevanza alle immagini e al significato portato da esse. In Habemus Papam, però, trovo che si accantoni progressivamente quell'altra caratteristica tutta morettiana della battuta che, per la sua capacità di evocare e sintetizzare, nei precedenti film si faceva a sua volta immagine ("mi si nota di più se vengo o se non vengo" o anche "pubblico di merda"), facendo sì che il lavoro sull'immagine oggi risalti ancor di più.

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