lunedì 27 settembre 2010

Note in margine a prossimamente, trailer e teaser.

Nati ai tempi del "prossimamente", cresciuti nell'epoca del "trailer", io e i miei coetanei siamo caracollati senza rendercene conto in quella del "teaser".
Una volta i nostri sogni cinematografici avevamo un margine di attesa che ci avvertiva solo quando eravamo prossimi a loro. Quel margine d'attesa, dopo essere stato instradato (to trail), è finito presto per diventare molesto (to tease).

Ma questo non è un discorso del tipo "come erano belle le cose una volta" e "il tempo delle merendine non tornerà più".

Da bambino i film cominciavo a desiderarli con il "prossimamente" e ne scoprivo il mistero poco dopo al cinema.  Il desiderio era libero di vagare fino a quel momento, di immaginare senza che nulla lo disturbasse.
(Da bambini, per noi ogni racconto era possibile fino al momento della visione, anche che Chariots of Fire nascondesse una trama vicina ai romanzi di Heinlein. Bastava saperlo raccontare. Bastava saperselo raccontare.)
La prossimità faceva sì che questo tempo dell'invenzione non dilagasse, che fosse limitato al "poco prima" così da lasciare spazio anche alle altre cose del mondo.
Sognavamo e desideravano in una dimensione socialmente gestibile.
Forse per questo non ricordo brutti film visti da bambino. Forse per questo allora non mi sembrava strano che d'estate non ci fosse il cinema.

In un passato recente era già come se ci fosse lo scatto del scambio ad avvertirmi che era tempo di cominciare a desiderare, costretto da lì in poi a viaggiare sui binari del cosa desiderare e del come farlo.
I binari sono espressione di un'industria comunicativa apparentemente più complessa e, invece, solo più strutturata. Una macchina dal cofano trasparente che ci obbliga a guardare il motore di una cilindrata sempre più grande.
Quel motore, piano piano, erode il mistero e, con il nostro consenso, lo monetizza, facendo del futuro merce dalla forma perfettamente collocabile sugli scaffali dell'oggi.

E oggi arrivo di fronte al film che sono già stanco di questa nuvola molesta di informazioni che mi ronza attorno per mesi e mesi (e a volte anni), che sta lì sempre presente perché io non mi dimentichi mai che qualcosa, in un domani non specificato, deve succedere, che mi chiede di ipotecare la mia attenzione futura in virtù di piccole soddisfazioni quotidiane.

Il "prossimamente" è espressione di un mondo che non ha paura del futuro e, per questo, non ha bisogno di evocarlo continuamente. Il futuro, per sua natura, viene da sè, senza bisogno che noi pensiamo a lui. Come la morte che, anche se non sembra, è connaturata nel desiderio. Il desiderio che, riempiendo la vita, ci fa pensare erroneamente che questo ci conduca più velocemente alla morte.
E la strada verso il desiderio non fa paura quando siamo certi che c'è un mistero ad attenderci.

Il "trailer" esprime un'epoca che cerca di esorcizzare il manifestarsi delle prime ansie giocando la carta del controllo, che vuole rendere meno pauroso il desiderio instradandolo, che vuole rallentare il desiderio perché la corsa verso la morte duri più tempo possibile.
(È l'espressione di un mondo che viaggia con il freno a mano tirato, Indiana Jones nella miniera dei thug che tenta di fermare il carrello lanciato verso l'abisso.)
Perché qualcuno o qualcosa ci ha fatto intuire che in fondo alla strada non c'è nessun mistero, che il fine corsa è solo fine.
E allora che tutto, prima di quel momento, sia perfettamente gestito e preparato, perché non sia mai che l'ultimo momento colga inaspettatamente la nostra vita vuota di senso.

La logica del teaser è la logica dello spegnere il fuoco con il fuoco, di fare scomparire il desiderio alimentandolo continuamente.
(Mio nonno si arrabbiava quando noi bambini stuzzicavano il fuoco. Il fuoco, una volta acceso, andava lasciato bruciare. Stuzzicarlo era l'equivalente laico di un peccato.)
Il teaser capitalizza continuamente il desiderio perché, ora che l'ha privato del mistero, non sa più come gestirlo. Il teaser è come un bambino che chiede al genitore di confermargli che il futuro esiste.
È l'espressione di un mondo in cui la paura che un domani non ci sia è talmente forte da far sì che esso metta continuamente in scena oggi quel domani. Quegli infiniti domani rappresentati in piccolo, in scala ridotta, come la vita cittadina nel plastico di Beetlejuice.
Un rito quotidiano il cui risultato è alimentare la stessa paura che vorrebbe scongiurare. La forma di un desiderio appiattito sulla logica della merce che, da sempre, deve diventare capitale prima che si deteriori.

5 commenti:

  1. E' la crisi di mezz'età, credo.
    Anche io mi sto rimbambinendo di DVD anni '80, serie animate della mia infanzia e fumetti della mia adolescenza... senza contare che mi sto facendo crescere i capelli come quando avevo vent'anni.
    Invecchiare, impazzire. ^__^

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  2. Io non mi sto rimbambinendo di DVD anni '80 e, come scrissi già in un altro post, i capelli ho deciso di portarli definitivamente corti.

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  3. No, mi riferivo alla mitizzazione delle cose "com'erano una volta" nei confronti di "come sono adesso", e agli arditi collegamenti tra il promo di un film e la morte.
    Solitamente sono sintomi da crisi di mezza età, m magari sbaglio: non sono mai arrivato alla mezza età prima...

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  4. Ti sei trasformato in Alberto Abruzzese?

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